venerdì 27 gennaio 2012

Il migliore degli ottimismi possibili

Siamo a Lecce, Leibniz e Voltaire siedono ad un tavolo di un caffè. Leibniz sorseggia un calice di negramaro apprezzando il vitigno scelto da Dio, perché considerato il migliore; Voltaire, fissando il suo negroni, fa un’analogia tra l’amaro del suo bicchiere e quello della sua anima. A rompere il silenzio tra i due è la voce di una giornalista alla radio che, con voce preoccupata, narra la manifestazione contro la crisi economica che, in quelle ore, si svolgeva nelle piazze di Roma. Tra i due filosofi si accende un dibattito.

V: “Ah, ricordi di gioventù! Niente è più entusiasmante della lotta collettiva per il raggiungimento dei propri obiettivi!”
L: “Non capisco il perché di tanto affanno! Gli uomini, da sempre, cercano di mutare la loro condizione attuale, non consapevoli della grande fortuna che hanno avuto nel trovarsi nel migliore dei mondi possibili!”


Voltaire, guardando il collega con perplessità…

V: “Tu credi ancora nella tua teoria del migliore dei mondi, nonostante tutto quello che accade nel mondo? La tua teoria, mio caro, vacillò già con quella brutta storia del terremoto di Lisbona. Figuriamoci ora, alla luce delle guerre mondiali, dei genocidi, delle repressioni, delle crisi politiche e di tutto il male di cui si sente parlare oggigiorno!”
L: “Ed è qui che ti sbagli, mio caro! Proprio alla luce di tutto ciò che è accaduto e che accade che la mia tesi è confermata. Ti spiego!”
V: “Illuminami!”
L: “Dio, come tu ben sai, in virtù della sua infinita bontà ha fatto di tutto per farci capitare nel migliore dei mondi. Egli, al momento della creazione, si è trovato davanti ad innumerevoli sostanze individuali, e non solo ha scelto le migliori ma anche quelle che insieme potessero dare il meglio…”
V: “Aspetta un attimo! Cosa sarebbero queste sostanze individuali?”
L: “Le sostanze individuali sono quelle idee che Dio si trova a dover scegliere al momento della creazione; ed è proprio con la creazione che esse diventano concetti completi incarnati ed entrano a far parte del migliore dei mondi, essendo non solo possibili all’interno di quel mondo scelto ad arte da Dio, bensì anche compossibili tra loro all’interno di quel mondo!”
V: “Vorresti farmi credere che tutte le cose che esistono nel mondo sono compatibili tra di loro e che non esisterebbe un’alternativa migliore alla loro situazione attuale?”
L: “Proprio così!”
V: “Quindi, vediamo se ho capito: se io mi fossi trovato ora sulle spiagge di Formentera in compagnia di una donna avvenente, a sorseggiare un mojito, alle calde temperature estive, sarebbe stato peggio che trovarsi qui con te, in questo freddo caffè, in una serata di gennaio a cercare di farmi convincere da una teoria che considera gli uomini come delle qualità di cioccolatini confezionati appositamente in una scatola, e convinti che la migliore morte possibile sia quella di essere mangiati per ultimi?”

Leibniz non ha neanche il tempo di rispondere alle ciniche obiezioni del collega che, alla televisione, si narra della tragica notizia di un vigile investito da un automobilista. Voltaire incalza…

V: “Ecco una notizia perfetta per corroborare la tua teoria! Dimostrami, ora, che il vigile e l’automobilista sono compossibili, come tu sostieni, e che quella situazione è da considerarsi la migliore!”

Leibniz, senza batter ciglio e con l’impassibilità che lo contraddistingue…

L: “Certo! Tutto è bene! Per varie ragioni: al vigile poteva andare peggio, sarebbe potuto non capitare affatto in questo mondo. Se poi, nel suo concetto completo, vi era il predicato secondo cui la sua vita sarebbe dovuta finire proprio in quel modo, vuol dire che non poteva andare altrimenti! Le ragioni sufficienti di Dio a noi sono precluse!”
V: “Ancora con questo concetto completo?! Che ne è, dunque, del libero arbitrio? Aveva ragione il caro Immanuel nel paragonare la tua libertà a quella di un girarrosto!”
L: “In primo luogo, se avessi conosciuto questo Immanuel avrei saputo rispondere degnamente alla sua obiezione e, in secondo luogo, il libero arbitrio esiste eccome!”
V: “Quindi mi stai dicendo che il vigile avrebbe potuto scegliere di non trovarsi in quel luogo?”
L: “Si, poteva anche non farlo in quanto il non farlo non avrebbe implicato contraddizione. In realtà era certissimo che lo avrebbe fatto, dato che la sua natura era quella e che il tutto rispondeva all’ordine generale dell’Universo voluto da Dio!”

Voltaire infervorato e al suo terzo negroni, legge il titolo del primo articolo di giornale che gli capita tra le mani: “Tragedia Crociera, una nave affonda dopo essersi scontrata contro una scogliera sulla coste dell’isola Giglio”…

V: “Leggi qui! Quanti dispersi, forse morti! Sei ancora convinto che anche questo concorra all’ordine generale dell’Universo voluto da Dio?!”
L: “Non tediarmi con queste domande, ti ho già risposto abbastanza! E poi io non sono nella mente di Dio! Anche questo disastro doveva accadere e anche qui, se ci pensi, poteva andare peggio..”
V: “Certo! Tutto è sempre bene! Sarebbe potuto cadere un asteroide!”
L: “Perché no!?”
V: “E certo! E distruggere l’intero pianeta, non c’avevo pensato!”

In quel momenti la discussione sembra giunta al termine, i due filosofi si alzano e, sbadatamente, Voltaire si rovescia addosso l’ultimo bicchiere di negroni…

V: “Accidenti! Questa non ci voleva!”
L: “Non lamentarti, poteva andare peggio!”
V: “E come?”
L: “Avresti potuto rovesciarlo addosso a me!”

Alla luce delle tragedie che accadono nel mondo ci riesce difficile abbracciare la teoria di Leibniz, riconoscendo, tuttavia, come un po’ di sano ottimismo ci aiuterebbe a guardare verso il nostro futuro con un entusiasmo che, forse il troppo cinismo, ci ha fatto perdere. Nonostante ciò sarebbe troppo facile pensare che tutto sia scritto e appartenga ad un pacchetto preconfezionato, che siamo solo delle pedine appartenenti ad un grande gioco. Ci piace pensare, invece, che l’ottimismo di Leibniz possa essere utilizzato in altri modi; vorremmo che chi governa un paese voglia con le proprie azioni governare il miglior paese possibile, che un uomo, in futuro, guidi con una responsabilità civica differente, e che mai più un errore umano possa provocare tragedia di tale portata come quelle di un incidente in alto mare. Un sano ottimismo, quindi, affinché le nostre azioni siamo volutamente volte al meglio, per costruire il nostro migliore dei mondi possibili.
di Irene D’Angelo e Rita Cardea


martedì 24 gennaio 2012

Ballata dell’annichilito

Vivo in un brutto posto dell’universo. Non da meno, però, i tempi nefasti di questo pianeta. Mancanze crudeli, nere derive, al crollo avanzate di millenarie celesti panacee, totalitari sogni totalizzanti, tradizioni aggreganti, collanti sociali. Vuoto di senso di cui tiepida triste progenie si fa il senso di vuoto che informa orienti e occidenti. Disonesto dissimulatore, danzatore in fiamme, sono a tempo pieno piegato in già editi eccitanti divertissements.
In ricircoli e ricicli di surrogati di bussole oramai fuori moda, di mappe senza più tesoro. e le mie nostre povere orecchie straziate dal pianto di orfani lerci di Dio e del divino: grigi sterminati eserciti, nel rovistare affaccendati tra macerie e frantumi di quanto un tempo fu morale.

Dalla tecnica esonerato nel procurarmi sopravvivenza, avanzi sfrutto d’energia in quasi eroiche derive, affannose ricerche di sempre nuove incoscienze, orfano di un fine nell’attesa della fine. Annichilito, mi fingo nichilista. giovanotto annoiato annoiante, piagnistei strimpellante su chitarre senza corde, diversivi canto chimicosessuali che mi strappino alla noia, all’oblio di meraviglia, a latitanze di regni sommersi sotto arrabbiate increspate superfici. spirito, sono, fiacco ed infiacchente, e a mia immagine rendo quel che tocco, predandone il significato, prostituendone il significante. non atto di vita ma morte in potenza, porto sbiadite sbiadenti malinconie come con scarpe alla moda. Misantropo di serie B. Ateo piagnucolone come lattante strappato a seni di patrie e matrie, di famigliestatiprimordiali e superni spiritelli. vile foruncoloso disobbediente, lacrime agli occhi e stizza implorante “non voglio andare a messa”. Fiore del male in serra coltivato, allettato e allattato da soli artificiali, ma da autentiche lune divorato. Invisibile alle stelle. amorfa, deforme tutt’al più, funzione ingrassante sistemi fascisti, scodinzolante ai loro zuccherini con su scritto “tu mi servi”. risentito del mio esserci forzato, gravoso perché gravato, canto in gregge canterino, che lauda tristi e insipidi naufragi, moti chiusi per chiusi luoghi. sguardo illanguidito, sonnolenta movenza di pensiero. Non più giochi di mamme e dottori, ma di maldetti maldicenti. limbi vivo, universi interstiziali tra ciò che fu e quanto sarà. Fra ciò ch’è distrutto e quanto dev’essere ancora costruito.

E quanto dev’essere, ancora, costruito! non abbatto, infatti, ma ancora abbaio da distruttore, nato come sono fra macerie preconfezionate, tra false morali distruttrici, ombre sbiadite del non saper edificare. Fra storie ormai vecchie, come tutta la storia gloriosa. quante bestie e dei bisogna ancora sgozzare, quante malsane catacombe demolire e vampiri incendiare, perché sorga la mia prima alba! Quanto cercare mutarsi in creare, quanto scavare in sotterrare! Quante talpe vogliono essere ancora predate dalle aquile, perché non più allo scavar di radice in radice, ma al volar di vetta in vetta assomigli questo mio procedere! Quante creature devo ammirare ancora mutarsi in creatori, quanto volere devo veder vendicare ancora l’esser stato voluto. E a quanti orizzonti deve ancora dichiarare guerra questo mio sguardo! Giungere deve, ancora, il vento onesto di antichi futuri cui io possa mordere la coda, che queste ali disveli, da sedimenti celate di angoscia collettiva. di quanta storia non serberò più allora ricordo alcuno! Quanto gelido avvenire spietato m’investirà! È per esso che celebro adesso il mio sì. È per la fecondità e il mio gravido presente che celebro adesso il mio sì.

Lì e Allora con balzo scavalco, Qui e Ora canto con gioia. massimamente perfetti: Qui e Ora.  Massimamente in atto: Qui e Ora. E ora e ancora li invoco. Ora e ancora, bramando non il loro infinito, predandone sì l’eternità.

marco politano


sabato 21 gennaio 2012

Men of Honor

Due uomini a confronto, alcune parole urlate via radio...
Sembra un film hollywoodiano del genere catastrofico, in cui il pathos è esasperato e lo spettatore con il cuore in gola. Invece è pura realtà, le due voci che ascoltiamo non appartengono a pluripremiati attori campioni nell’interpretazione di ruoli drammatici.

Noi, spettatori di uno show che purtroppo non è una rappresentazione scenica, rimaniamo attoniti di fronte al dialogo che si instaura tra due uomini i quali, sviluppandosi la conversazione, si dimostrano così diversi, come distanti centinaia di miglia l’uno dall’altro.
Il distacco tra le due figure protagoniste assume caratteri universali, i due uomini vengono quasi spersonalizzati per divenire simboli. Il comandante di quella città galleggiante che era la Costa Concordia prima del disastro, Francesco Schettino, rappresenta la personificazione della viltà, dell’egoismo, dell’opportunismo. L’uomo che dovrebbe abbandonare per ultimo la nave che affonda è il primo a fuggire insieme agli altri ufficiali. Colui il quale ha il compito di rassicurare l’equipaggio e coordinare le operazioni di salvataggio preferisce darsela a gambe e non rischiare. Dal lato opposto, il simbolo della giustizia, della deontologia professionale, dell’onore di chi svolge un ruolo di responsabilità, Gregorio De Falco, anch’egli comandante (della sezione operativa della Capitaneria di Porto di Livorno). Tutti noi esaltiamo quest’uomo, le sue parole severe che richiamano Schettino all’ordine, ad assumersi le sue responsabilità di comandante. Diveniamo giudici condannando il pusillanime Schettino e osannando l’eroe De Falco. Sullo sfondo, come se per un attimo fosse tutto oscurato dalla sconvolgente conversazione, la nave che affonda lentamente, trascinando con sé una scia di morte.
Fermiamoci un attimo, riflettiamo.
In fondo in ognuno di noi convivono il comandante Schettino e il comandante De Falco. Una sorta di Yin–Yang, nel quale vi è commistione di valori positivi e negativi, questo è l’essere umano. Potremmo dire, con Freud, che Schettino rappresenta il nostro Es, la cieca istintualità, il dominio degli impulsi, tra cui ovviamente il ruolo principe è svolto dall’istinto di conservazione, della propria conservazione in questo caso. De Falco è il Super–io, l’insieme dei valori, dei codici di comportamento che interiorizziamo fin da piccoli. È quella voce che ci sprona a compiere azioni conformi alla morale della nostra comunità di appartenenza oppure ci spinge a fare il bene di quella comunità, molto più estesa, che è l’umanità intera. Seguire gli ordini di De Falco comporta rischi e scelte responsabili, abbandonarsi all’Es–Schettino appare molto più facile come deliberazione.
Come potrà mai agire il nostro Io, in bilico tra Es e Super–io, un po’ come la biga platonica in preda al moto antitetico dei due cavalli–anime? Non è semplice rispondere, scegliere. Seguire l’istinto forse ci assicurerebbe la salvezza ma il prezzo da pagare è il giudizio negativo degli altri, lo stigma, come direbbe qualcuno.

Affidarsi alla ragione, sentirsi parte di qualcosa che ci sovrasta, divenire coscienti di poter fare il bene dell’umanità ci renderebbe eroi ma il conto può essere molto salato, potremmo rimetterci la vita. Siamo uomini d’onore? O vigliacchi? É molto più semplice giudicare, fare gli spettatori. Di un film catastrofico che appare reale. O di una realtà tanto drammatica da sembrare finzione.

 Davide Negro


martedì 17 gennaio 2012

“Futurologia” astrologica. Un sapere possibile?

Nell’Introduzione al suo Trattato pratico di astrologia, Andrè Barbault si domanda quanto sia possibile – per una mente razionale del XX secolo – comprendere il “sapere astrologico” approcciandosi ad esso “dall’esterno”. Per questo motivo, il celebre studioso invita ad un’analisi “interna” della disciplina, ovvero chiede al lettore di abbandonare l’atteggiamento di condanna “esterna” dell’arte, tentandone invece uno studio dal suo interno. D’altronde, ogni “critica” degna di assurgere al rango di “critica filosofica” non può che svolgersi nella consapevolezza di una necessaria “conoscenza preliminare” dell’oggetto che si vuol sottoporre a giudizio. Ciò vale anche per l’astrologia.
Tale consapevolezza, non sempre riscontrabile negli intellettuali di oggi, è invece, almeno fino al Rinascimento, il punto da cui parte ogni critico “serio” dell’arte di Urania.
È il caso di Giovan Battista Della Porta (1535-1615), celebre filosofo napoletano del Rinascimento, il quale, in una delle sue più divertenti commedie, Lo Astrologo, pubblicata a Venezia nel 1606, mette in scena un esilarante sberleffo del mestiere di astrologo, buffamente ritratto come un “cacciatore notturno di spiriti e di Intelligenze celesti”.
Ne riportiamo alcuni passi.

Lo astrologo.
Commedia. Primo Atto. Scena terza (Gramigna, Pandolfo)

Gra. Che dimandate voi?
Pan. Sete di casa?
Gra. Sono servo del Astrologo divino.
Pan. Avrà ben bevuto l’astrologo, poiché è di vino.
Gra. Divino cioè che sa delle stelle, delli celi, e di cose celestiali, e perché indovina.
Pan. Si potria parlar col vostro indovino?
Gra. È ritornato stracco dalla caccia de spiriti, e di intelligenze, e non ha portato più di cento carafelle piene, e ora sta con quadranti, astrolabi, e meteoroscopi, e altri stromenti osservando la congiunzione de’ pianeti.
[…]
Pan. Che berà. Che mangiarà questa mattina?
[…]
Gra. Liquore di pianeti, rugiade di stelle fisse, distillazioni di destini, quinte essenzie de fati, sugo di cieli.
Pan. Come li raccoglie? Come se li beve?
Gra. La notte quando sta contemplando il Cielo, li piovono su la gran barba, […] e se li beve, l’avanzo si conserva per quando ha sete in certe botte grandi cerchiate di Zodiachi.

È noto come Giovan Battista, sin dalla prima giovinezza, si sia occupato assiduamente di astrologia. Infatti, la critica che egli attua ne Lo Astrologo, lungi dall’essere riferita all’astrologia in quanto tale, è rivolta ad una sua interpretazione (quasi ovvia nella cosmologia rinascimentale) che associa gli intelletti motori dei cieli, le anime delle sfere e i demoni.
Tale identificazione, dovuta all’immissione nella tradizione aristotelica, tra XV e XVI secolo, di motivi ermetici, neoplatonici e cabalistici, trova un argine nelle acquisizioni dell’aristotelismo padovano, di cui, nel XVII secolo, Giulio Cesare Vanini, ripercorrendo un tragitto già battuto nel Medioevo da Pietro d’Abano e da Biagio Pelacani, e nel Rinascimento da Pietro Pomponazzi, interpreta gli esiti più estremi e radicali.
Negli anni della maturità, Della Porta si inserisce, in maniera del tutto peculiare, tra queste due tradizioni “cosmologiche”.  Condividendo con gli aristotelici padovani l’idea che le stelle siano “corpi fisici” e non “demoni del cielo”, egli recupera, radicalizzandola, la dottrina plotiniana degli astri-segni. Per Della Porta le stelle non causano mai gli eventi concernenti l’uomo (in bilico tra umori, grazia divina e libertà), né ha senso credere alla divinazione astrologica. L’astrologia, quindi, non può considerarsi una “futurologia”, una “scienza del futuro”.
D’altronde, in un famoso passo de Lo Astrologo, sottolineando lo stretto legame che, a suo parere, intercorre tra divinazione e superstizione, Giovan Battista fa dire a Cricca, uno dei personaggi della commedia, una frase assai eloquente: “Non sapete che la Negromanzia è refrigerio di quelli miseri, che si trovano in qualche strabocchevole desiderio?
 Molti anni sono passati da quando, poco più che ventenne, Della Porta ha iniziato a “curiosare”, dalle pagine della sua prima Magia naturalis, nella raffinata tradizione cosmologica e demonologica del neoplatonismo rinascimentale. Ora, quasi ottantenne, dopo anni di assidua indagine della natura, e sotto i “colpi” del pensiero controriformistico, ciò che gli preme è soprattutto distanziarsi dalle “fraudi” dei demoni (identificati, adesso, con gli “angeli decaduti” della tradizione cristiana) e, in fondo, anche da chi alle potenzialità “superiori” di questi esseri ancora presta fede.
Nasce da qui, dalle ceneri di una cosmologia e di un sistema di pensiero in crisi, la sua “Fisiognomica del mondo”, intesa come “semeiotica universale” e forma più alta e verace di filosofia.
La riflessione di Della Porta sull’astrologia e – più in generale – sull’occulto, della quale Lo astrologo fornisce una piacevole esemplificazione, ci aiuta a comprendere come, alle soglie della modernità, la critica al soprannaturale trovi i suoi fondamenti, più che nel nascente “pensiero scientifico moderno”, (al quale, comunque, spetta il “merito” di aver mutato, nel corso dei secoli, il “senso comune” intorno al superstizioso), nelle conclusioni di un universo concettuale, quello del naturalismo astrologico (astronomico) aristotelico (ma in Della Porta agiscono anche forti motivi plotiniani), destinato tuttavia a soccombere, da lì a breve, con la superstizione stessa.

Donato Verardi


venerdì 13 gennaio 2012

E' uscito il V volume dell’Epistolario di Nietzsche

È uscito! Lo si aspettava ed è finalmente in libreria: il quinto e ultimo volume dell’Epistolario di Nietzsche (Adelphi, pagine 1358, euro 100). Tra le opere di Nietzsche ce n’è una che non è considerata tale, perché non rientra tra quelle da lui pubblicate o preparate per la stampa, ma che lo è in sostanza, essendo non inferiore alle altre: è appunto il suo Epistolario, un’autobiografia sui generis, che oltre a raccontare i fatti della sua vita, i suoi rapporti calmi o tempestosi coi più svariati interlocutori, illustra motivi, fini e circostanze delle opere, di cui costituisce un commento autentico.

La bella traduzione di questo volume è di Vivetta Vivarelli, e le Notizie e note sono di Giuliano Campioni e Maria Cristina Fornari. È un grande avvenimento, una pietra miliare per gli studi nietzschiani e una gloria della scienza italiana, in particolare per l’apparato, appunto, di Giuliano Campioni e della sua assistente M.C. Fornari. Scritto indipendentemente dall’apparato tedesco, di cui tiene tuttavia conto, specie per le 18 Urabschriften, lettere di Nietzsche che sono conosciute solo nelle trascrizioni della sorella Elizabeth, dunque di non accertabile autenticità, esso si estende per un migliaio di pagine.

È pertanto un’opera nell’opera, che comprende scoperte, inediti e illuminanti ragguagli di ogni sorta: tutto un prezioso sapere, di cui solo il principe dei filologi nietzschiani Campioni era capace, degno continuatore com’è del geniale maestro Mazzino Montinari. Tutti i volumi dell’Epistolario sono belli e importanti, ma il quinto, che contiene tutte le lettere degli ultimi quattro anni lucidi di Nietzsche (gennaio 1885 - gennaio 1889), è certo il più ricco e meraviglioso.

Queste lettere, infatti, “restituiscono con un’intensità forse mai raggiunta in precedenza il suo percorso umano e filosofico, l’attività legata alla pubblicazione delle sue opere, gli stati d’animo da cui nascono i suoi scritti, fino ai cosiddetti ‘biglietti della follia’, nei quali lancia i suoi proclami al mondo firmandosi ‘Dioniso’, ‘Cesare’, ‘Il Crocefisso’” (Campioni). Spicca in esse la solitudine in cui Nietzsche vive e pensa, sullo sfondo di luoghi abbaglianti come Nizza, scelta in inverno per la sua aria mite e asciutta, ma detestata per la sua chiassosità, Sils-Maria in Engadina per l’estate, dove Nietzsche ha l’illuminazione dell’Eterno Ritorno, e alla fine Torino, scelta anzitutto per i lunghi portici che gli consentono, non amante del sole com’è a causa dei suoi problemi di vista, lunghe passeggiate all’ombra, ma poi eletta città ideale anche per altre cose, non esclusa la buona cucina.

La solitudine è per Nietzsche croce e delizia. Delizia perché, come scrive all’amica materna Malwida von Meysenbug, “La solitudine nella natura più solitaria è stata sinora il mio balsamo e il mio strumento di guarigione. Le città movimentate […] alla lunga mi rendono irritabile, triste, insicuro, abbattuto, improduttivo, malato”. Croce perché, per la sua natura estremamente bisognosa di amicizia, amore e comunicazione, la solitudine, aggravata da continui malanni, si trasforma nel suo principale tormento. Egli se ne lamenta con fanciullesco abbandono (“Adesso sono solo, assurdamente solo”), ma anche con la consapevolezza che, per i compiti a lui incombenti, un diverso destino non è possibile. “Ci saranno pochissime persone in Europa che abbiano una cultura abbastanza vasta e profonda per poter percepire quel che vi è di nuovo, inaspettato, profondamente radicale nei miei scritti, ma soprattutto” per “indovinare e sentire la condizione, la passione, dalle quali erompe un tal modo di pensare”, scrive al barone Reinhart von Seydlitz. Per questo egli pensa di non poter amare e di non poter essere amato. “Non riesco a credere”, scrive alla sorella, “che potrei mai amare qualcuno: ciò presupporrebbe che trovassi un giorno – meraviglia delle meraviglie! – una persona del mio rango”.

E aggiunge: “Non dimenticare che io disprezzo, tanto quanto li compiango profondamente, esseri come Richard Wagner e A. Schopenhauer, e che ritengo superficiale in confronto a me il fondatore del cristianesimo, io li ho amati tutti quando non avevo ancora compreso che cosa è l’uomo”. Vorrebbe avere come amici Stendhal, l’abate Galiani e Montaigne, che dice di amare. Egli oscilla così, dice Campioni, tra lo sconforto e l’esaltazione dei suoi grandi compiti, sentiti come missione inderogabile “con il peso di cento quintali”, ma neppure da lui stesso ben padroneggiati. Si tratterà, oggettivamente, di tre missioni, come solo il senno di poi potrà assodare: 1) la distruzione della filosofia logica, sistematica in base a un acume morale nutrito di esperienza e divenuto in lui un sistema sui generis, contrapposto ai sistemi filosofici; 2) la trasfigurazione in poesia tragica della crisi dell’Occidente, con la visione dionisiaca della natura come volontà di potenza, senza fondamento e scopo, che conferisce comunque alla crisi stessa corpo spirituale, legittimità e accelerazione, e 3) la fondazione della religione laica, religione del corpo e della terra, della vita splendente e caduca, piena di infinità ed eternità, ma soggetta al nascere e perire.
 Sossio Giametta


martedì 10 gennaio 2012

«Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca»


Nel saggio su L’essenza del linguaggio, Martin Heidegger, in diversi passaggi, si sofferma sulla lirica di Stefan George (1868-1933), in particolare su un componimento del 1919 dal titolo Das Wort (La parola). Il verso finale di questa poesia, «Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca», stimola l’attenzione del filosofo, il quale in esso riscontra un esempio di come il poeta riesca a portare a parola, in modo autentico (che equivale a dire poetico), l’esperienza che fa del linguaggio. Dove la parola manca, dove essa viene meno, non può esserci “cosa”, dal momento che quest’ultima attende d’essere nominata dalla parola. Il linguaggio poetico, dunque, ci dice qualcosa di più, rispetto al linguaggio comune ed ordinario, del rapporto tra parola e cosa, del rapporto tra essenza del linguaggio ed essenza delle cose. La poesia di George, si potrebbe dire, è segnata da questa incessante ricerca che ha, come suo fine e come sua fine, l’essenza, l’anima, lo spirito.
Nelle liriche di George, poeta che come pochi altri ha infiammato la gioventù tedesca d’inizio Novecento, ciò che emerge, in prima battuta, è l’abissale mistero e l’incolmabile distanza tra l’autore ed il lettore. I suoi versi sono come «sfoghi a denti stretti, contro la propria volontà, confessioni intime, sussurrate nel buio di una stanza, nascondendo il volto». Accostarsi alla sua poesia, così profondamente e drammaticamente intimistica, produce una sorta di apnea che ci tiene costretti sulla sua soglia. Nonostante l’attività di George sia antecedente all’anno di svolta su cui ha posto l’attenzione Harrison (il 1910), la “questione spirituale” è rintracciabile già nel poeta tedesco, se è vero che la sua può essere considerata una ricerca del senso supremo che supera e sovrasta il mondo delle cose.
La lettura delle liriche di George, come ha scritto György Lukács, ha poco a che vedere con la produzione di un «sentimento di massa», poiché questi canti «furono scritti – idealmente – per una persona; soltanto un uomo può leggerli, appartato e solo». È una scrittura della (e nella) solitudine, tanto nel senso di una solitudine che si fa parola poetica quanto nel senso di una parola poetica che esprime e comunica solitudine. Una intonazione chiaroscurale e sfocata, nella pur luminosa galleria quasi impressionistica di immagini, attraversa le pagine di George. Essa attrae nel magma delle proprie in-definizioni il lettore solitario, l’uomo che vive al di fuori della trama dei legami sociali ma che, nonostante questo, accarezza, nella brevissima durata di uno sguardo, di una stretta di mano o di un ballo dei cuori, la possibilità di avvicinarsi all’altro e potersi vicendevolmente appartenere. Questo sogno, però, si dilegua istantaneamente, perché «due uomini non possono mai essere realmente uno solo».
Eppure, inaspettatamente, la lirica di George è, per dirla ancora con Lukács, la lirica delle relazioni umane, delle amicizie, degli avvicinamenti e delle intese intellettuali. La relazione si accende e vive in uno spazio-tempo delimitato, passeggero, fragile; la distanza tra le anime diviene una piccola fessura che tende verso la propria dissoluzione, anche se soltanto momentanea, nel contatto, nell’unione. E «quando due esseri si separano, si sa soltanto che qualcosa non c’è più; mai che c’era qualcosa che ha cessato di essere». Quel che George cerca, in ogni caso, è il dialogo tra un’anima e l’altra, per il tramite delle forme e delle immagini.
La forte connotazione immaginifica e, ancora di più, simbolica della lirica di George, va ricondotta all’intima necessità di svincolare l’anima dalla volontà per consegnarla alla dimensione della «contemplazione incantata: nell’immagine ogni impulso è liberato». Il ricorso all’immagine e al simbolo è strettamente connesso alla questione del linguaggio e delle sue possibilità, un linguaggio la cui essenza tenta non solo di far heideggerianamente lampeggiare l’essere, ma di dare ad esso un’immagine. Al tempo stesso, però, questa quasi oggettiva evidenza, questa maggiore presenza, si manifesta in un’opposta illusoria esaustività: come un’onda, la parola poetica si avvicina all’essere per non raggiungerlo e ritrarsi, ancora una volta.
Le «istantanee simboliche» di George, che paiono impegnate quasi in un’affannosa ed estenuante corsa verso la conquista dello Spirito prima di assistere al suo dileguarsi, sembrano lasciar presagire le vicende che caratterizzeranno, di lì a poco, il Novecento. Vicende storiche nelle quali splendore, gloria, distruzione, sciagure, culto della vita e culto della morte si intrecceranno in una sola drammatica trama.

Splendore e gloria! Così è desto il mondo
pari agli eroi consacriamo alpe e oceano
possente orfano lo spirito guarda
al campo e alla marea che increspa intorno.

S’infrange un chiarore, vola un’immagine
scuote selvaggia ebrietà con sua croce.
Plora la legge e pensa in sé riflessa
«Tu mia salvezza tu gloria tu stella»

Poi di alto orgoglio il sogno si alza e doma
strenuo il Dio che l’ha eletto… finchè un grido
lontano in già ci scaccia e innanzi a morte
ci spoglia in breve […].

Splendore al quale segue la caduta, sogno che si disperde per effetto di un grido lontano, fino a lasciare nudi dinanzi alla morte, in breve. George costruisce con rigore e precisione i suoi versi, ponendoci di fronte alla domanda se tali versi esprimano freddezza o coinvolgimento, distacco o calore emotivo. George potrebbe apparire freddo, scrive Lukács, ma questo accade perché i suoi toni sono così delicati che non tutti sono in grado di distinguerli: freddo perché le sue tragedie sono tali che l’uomo medio odierno non avverte ancora la loro tragicità e perciò crede che quelle poesie siano nate solo per amore delle belle rime, freddo perché i sentimenti espressi dalla lirica non svolgono più alcun ruolo nella sua esistenza.
L’apparato simbolico e linguistico di George esplode nella creazione di immagini, per quanto pensabili, assolutamente irraggiungibili nella loro essenzialità. Esse si susseguono armonicamente seppure sfidando apparentemente ogni logica di senso, tutto «infuria, scuote, va, saetta e arde». Questa inarrestabile e furiosa oscillazione tra vitalità e dissoluzione è esemplarmente sintetizzata nei versi conclusivi di Sogno e morte:

[…] più tardi a noi
nel notturno cielo si disegna un quieto
gioiello di luce, rutilo: splendore
e gloria, ebrietà e croce, sogno e morte.

Ciò che pare incombere è l’oscurità e la tristezza della notte, desolante e, al tempo stesso, evocativa dimensione, tanto del silenzio quanto delle turbolenze dell’anima; «e mentre fuori si fa più buio e più nero, del pari all’interno il sarcofago di brace arde e pulsa stridendo sordamente. Nel brivido l’anima si rafforza». E l’anima che la poesia di George vuole risvegliare, alla quale egli si appella, è un’anima che fa propria questa fuga nel silenzio e nella solitudine, nell’espressione lirica di una verità nascosta dietro la perfetta e muta forma.

(Giacomo Fronzi)


giovedì 5 gennaio 2012

Le tre missioni di Nietzsche



1) trasformazione della filosofia in moralismo, cioè distruzione della filosofia in quanto basata sulla logica e
sui concetti;
2) trasfigurazione della crisi storica della civiltà in poesia tragica;
3) fondazione della religione laica.


Ad 1) e 2).
L'insofferenza della falsità in tutte le sue forme (menzogna, ipocrisia, illusione) è il denominatore comune di tutte le manifestazioni di Nietzsche, l'unità sotto la varietà, la coerenza sotto le contraddizioni. Nietzsche Sentiva la falsità all'odore. Diceva: "Il mio genio è nelle mie narici". La logica è incapace di penetrare la realtà, è una macchina autoaffermativa che rende pensabile ciò che non lo è, ossia la realtà (la ingabbia ma non la penetra). Essa funziona con cose uguali, ma nella realtà non ci sono cose uguali. La psicologia deve prendere il posto della logica. "Da Copernico in poi l'uomo rotola dal centro verso una x". La realtà è una x. 


Che cos'è la verità? "L'errore di cui abbiamo bisogno per vivere". L'uomo, secondo Spinoza e anche Nietzsche, è un conatus suum esse servandi. E' un organismo impegnato, sempre attivo, anche nel sonno, teso a conservarsi e ad accrescersi. Dunque tutto quello che pensa ha una direzione: la volontà di potenza. La sua verità è, in quanto aggregata ai bisogni vitali, un errore, un errore utile, anzi necessario. Qual è allora il criterio della filosofia, se non è la verità? E' valida quella filosofia che aiuta i forti, destinati per Nietzsche a soccombere al maggior numero e all’astuzia dei deboli. I sistemi filosofici sono interessati alla dimostrazione dell'ordine morale del mondo, ossia a imporre alla realtà, non umana, un ordine umano, a umanizzarla, per i nostri fini. Nietzsche distrugge i sistemi col rigore morale, il quale può configurarsi, con la sua intima coerenza, come un diverso sistema, un sistema morale appunto contro i sistemi concettuali. La verità per Nietzsche è la visione dionisiaca, la visione della natura selvaggia dai contrasti irredimibili, senza principio e fine, senza fondamento, fatta di creazione e distruzione, di perpetua competizione degli innumerevoli quanti di potenza, Machtquanten. La legge della natura è la sopraffazione, lo sfruttamento e la schiavizzazione dei deboli da parte dei forti (superuomo, uomo forte = Gewaltmensch, volontà di potenza). "La schiavitù è condizione di ogni civiltà e di ogni innalzamento della civiltà". Non esistono meriti e colpe, esiste solo il grande fatalismo della natura. Bisogna eliminare i malriusciti. Eliminata la conoscenza, eliminata la morale (il nichilismo è queste due negazioni), resta solo la natura, il "terribile testo homo natura". Tutto questo è un percorso strettamente individuale e filosofico. Mai si parla o si pensa alla politica. Tuttavia esso corrisponde in pieno alla crisi storica, al tramonto dell'Occidente. Diventerà l'ideologia fascista. Perché Nietzsche, inattuale e apolitico, è, a sua insaputa, una creazione della crisi e dell'attualità, che si irradiano nella filosofia come nella morale, nella politica, nell'arte e in tutte le cose umane. Il percorso individuale di Nietzsche è un effetto solo formalmente autonomo, la causa è la crisi storica. La trasfigurazione della crisi in poesia tragica dà corpo spirituale alla crisi, la legittima e la accelera. Con pieno diritto i vari fascismi si richiamano a Nietzsche.


Ad 3).
Col declino del cristianesimo, nel 1400, comincia l'ascesa della civiltà laica. Ma se non c'è più Dio a proteggerci e vegliare sul nostro cammino, gli uomini fanno fatica a reggersi da soli. Affermazioni e sbandamenti si alternano continuamente, e tuttavia il processo di laicizzazione non si arresta. Le tappe nei due sensi - affermazione e negazione - sono tante, si chiamano Montaigne, Descartes, Spinoza, Hobbes, Leibniz, Hume, Kant, Hegel e alla fine Schopenhauer, come picco del pessimismo, massima opzione del no. Anche però come massimo sprone al progresso in senso contrario, Nietzsche, approdo di un processo di almeno sei secoli, che sostituisce la religione cristiana e la religione positiva in genere con la religione laica, fatta di accettazione del posto infinitamente subordinato dell'uomo nell'universo, come cellula di un immenso organismo, che però per la sua essenza, parte dell'essenza divina della vita, ama se stesso e la vita come dilatazione di se stesso, nonostante le circostanze della vita, cioè gli orrori del mondo, che obbediscono a leggi superiori, non umane. Il male non è altro che l'essere cellula di un grande organismo di cui si devono subire le leggi. E' una religione difficile, ma non necessariamente filosofica, si incarna nei tantissimi che amano la vita nonostante tutto. Perché, lo ha detto Spinoza, “L’uomo conosce l’eterna e infinita essenza di Dio”, anche fra gli orrori. La religione laica è comunque la sola che non offenda la verità, l’intelligenza e la dignità umana, come fanno invece le religioni positive. E' anche la più umile, perché pensa l'uomo fatto per il
creato e non, come il cristianesimo, il creato fatto per l'uomo. 


Aggiungo la spiegazione rimasta incompleta del fatto che chi, come Nietzsche, non è un vero filosofo (in senso stretto) e si mette a filosofare, crea disastri. La sua trasvalutazione è un'intuizione geniale perché scopre i motivi, più che egoistici, fisiologici dietro le pretese morali e spirituali che si accampano. Ma sviluppata filosoficamente, cioè sistematicamente, come Nietzsche fa, traduce tutto ciò che è spirituale nel naturale e sfocia nella lode dell'animalità e della ferocia.
Sossio Giametta


lunedì 2 gennaio 2012

La crisi secondo Leopardi, Harry Potter e Napolitano

V. Calendari, calendari nuovi e coloratissimi regalati dalla banca! Ne vuoi uno anche tu?
P. Calendari per l’anno nuovo? Regalati dalla banca ?!
V. Certo.
P. Per un felice anno nuovo?
V. Mi sembra ovvio. È un pensiero carino, non trovi?
P. E te li ha regalati anche l’anno passato?
V. Sì, in effetti, non ho mai avuto bisogno di comprare calendari. La mia banca ha sempre avuto pensieri carini nei confronti dei suoi clienti.
P. E ci mancherebbe altro. Comunque, direi che quei calendari di buon augurio sforino nel cattivo gusto, non trovi? Dimmi, a quale di questi anni vorresti davvero che somigliasse il prossimo anno?
V. Se devo essere sincero, nessuno. Sai, con questa crisi, il mutuo, la famiglia da tirare avanti, le cose non sono andate tanto bene… in azienda abbiamo sfiorato il licenziamento! Speriamo che quest’anno si risolvano un po’ di questioni.
P. Da quanti anni la tua banca ti riempie di calendari colorati e pietose agendine tascabili plastificate?
V. Bah, direi una decina d’anni, da quando ho attivato il conto corrente.
P. E a quale di questi ultimissimi anni vorresti che somigliasse l’anno venturo?
V. Bah, non saprei.
P. Non ti ricordi nessun anno particolarmente felice, vero?
V. In verità no… Aspetta, a che gioco stai giocando? Questa conversazione mi sa tanto di deja vu. Mi hai fatto venire in mente la professoressa di letteratura del liceo, motivo sufficiente per rimproverarti di avermi rovinato la giornata.
P. Come associazione di idee sei andato vicino. Ai miei studenti ho dato da leggere un po’ di Leopardi per le vacanza natalizie… Poi sei arrivato tu e non ho resistito alla debolezza…
V. … oddio, quel… coso sugli almanacchi! Ti riferivi a quello?
P. Non si chiama “coso”, si chiama “dialogo”, e per la precisione “Dialogo di un venditore di almanacchi e un passeggere”.
V. Hai comunque inteso a cosa mi stessi riferendo e tanto basta. Penso di aver capito dove volessi condurmi… è inutile illudersi con l’attesa di una vita futura priva degli affanni che hanno gravato negli anni precedenti… ogni anno ci ritroviamo a sperare in un anno nuovo pieno di promesse e nessuno vorrebbe mai tornare indietro a rivivere ciò che ha già vissuto, segno del fatto che il caso ci ha trattati tutti male. Quindi, stavi prendendo in giro il mio entusiasmo per l’arrivo dell’anno nuovo come se fosse ingiustificato!
P. Trovavo ironici gli auguri da parte della banca, considerati i guai nei quali ci hanno cacciati… però d’altra parte, mai come quest’anno sono “contestualizzati”, diciamo così. Non so quanta attenzione tu abbia prestato al discorso del Presidente della Repubblica la sera di Capodanno…
V. Molta, tanta, economia! Bilancio dello stato, evasione fiscale, corruzione, sacrifici... Fatta salva la fiducia! Non sembrava il classico discorso di fine anno, mi è parso mancasse qualcosa.
P. Già, il che è sintomatico… ben diverso dal discorso dell’anno scorso, di più ampio respiro e nello stesso tempo di peso, e soprattutto rivolto davvero ai giovani, al nuovo, chiamati in causa su molteplici aspetti. In confronto, il discorso di quest’anno è stato monotematico e in tal senso, preoccupante. È segno che le preoccupazioni di stampo economico e finanziario sono diventate il comune pensiero fisso condiviso… e si sa che non c’è miglior modo per cadere in un abisso quando si è tormentati da pensieri fissi…
V. Mi aspettavo parlasse di più del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia… c’è stato solo un breve accenno all’inizio e nulla più.
P. Riducendo al minimo, possiamo dire che abbiamo festeggiato l’anniversario della nostra nazione unita con il rischio di fallimento dello Stato, l’Italia ridotta agli sberleffi dei cugini europei, camminando sul filo teso sopra il baratro della recessione. E se dovessi fare una previsione, le premesse poste da un discorso di fine anno di questo genere non lasciano molto spazio a vere speranze di cambiamento, per quanto ciò possa valere.
V. Cosa avresti voluto che dicesse?
P. Che abbiamo sbagliato tutto, che già l’anno scorso eravamo ben coscienti della drammaticità della situazione, e che nonostante tutti i buoni propositi abbiamo avuto la capacità di complicare i nostri problemi fino a un punto di non ritorno. Il giorno di Capodanno non ha nulla di speciale se non l’occasione di fare un bilancio, individuale e collettivo. E nel discorso, a mio parere, non c’è stato nessun bilancio. Cosa tanto più grave considerando che quest’anno costellato di ricorrenze e commemorazioni ci ha offerto molte possibilità in tal senso, colte solo a parole e mai nei fatti. Tanti bei sentimenti, ma ne è mancato uno, fondamentale e imprescindibile, per andare avanti e rimboccarsi le maniche. Non è bello a sentirsi dire, ma non per questo non è necessario.
V. Quale?
P. Chiedilo a Leopardi. Tieni, leggi, intendo portarlo in classe al ritorno dalle vacanze.
V. Oddio, cos’è?
P. Dallo Zibaldone, il riferimento l’ho ripescato dai miei appunti dell’università, leggi…

V. ..«se noi dobbiamo risvegliarci una volta, e riprendere lo spirito della nazione, il primo nostro moto dev’essere non la superbia né la stima delle cose presenti, ma la vergogna. E questa ci deve spronare a cangiare strada del tutto e rinnovellare ogni cosa. Commemorare le nostre glorie passate, è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti è conforto all’ignavia, è argomento di rimanersi contenti di questa vilissima condizione. Oltre a questo serve ancora ad alimentare e confermare a mantenere quella miseria di giudizio, e mancanza di ogni arte critica, di cui lagnavasi l’Alfieri (nella sua Vita) rispetto all’Italia, e che oggidì è così evidente per la continua esperienza sì delle grandi scempiaggini lodate, sì dei pregi (se qualcuno per miracolo ne occorre) o sconosciuti, o trascurati, o negati, o biasimati» ...

P. Notevole, non è vero? Ed è stato scritto quarant’anni prima dell’unità d’Italia, in condizioni storiche molto diverse dalle nostre. Come spunto di riflessione, mi sembra molto interessante.
V. Quindi il problema è che non sappiamo vergognarci della nostra situazione? Non abbiamo spirito critico verso noi stessi, chiudiamo gli occhi di fronte alle scempiaggini che ci corrono sotto gli occhi e misconosciamo anche quel poco che invece sarebbe degno di merito?
P. Sì, e dopo un anno di celebrazioni della nostra storia, sarebbe anche arrivato il momento di rendersene conto, perché la fantomatica “fiducia”, tanto sbandierata, non può essere cieca di fronte ai nostri limiti e difetti. Il nostro passato non è un sogno sicuro nel quale trovare riparo dallo squallore della nostra quotidianità. Abbiamo trascorso un anno a guardarci allo specchio senza renderci conto che stava per andare in frantumi.
V. Hai mai letto Harry Potter?
P. E come ti è venuto in mente adesso?! In ogni caso sì, l’ho letto.
V. Per l’ultima frase che hai detto, mi hai fatto ricordare un passaggio del primo libro, quando Harry Potter perde le sue notti di fronte allo specchio delle brame, e Silente lo ammonisce… “non serve a niente rifugiarsi nei sogni e dimenticarsi di vivere”.
P. Ecco, questo si che potrebbe essere un bel messaggio di fine anno! Non dimenticarsi di vivere!

 Simona Apollonio