domenica 23 settembre 2012

NEL SEGNO DI M.

“Non so dei vostri buoni propositi
 perché non mi riguardano
 esiste una sconfitta
 pari al venire corroso
 che non ho scelto io
 ma è dell’epoca in cui vivo
 la morte è insopportabile
 per chi non riesce a vivere
 la morte è insopportabile
 per chi non deve vivere
 lode a Mishima e a Majakovskij”

Mai banali, i CCCP conchiudono il lato A di “Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi. Del conseguimento della maggiore età” con “Morire” dove Ferretti, con parole scheletrite ma profetiche narra il senso di una (de)generazione nata sotto l’egida del consumismo più becero.

Perché citare Mishima e Majakovskij? All’indomani del secondo conflitto mondiale il pensatore giapponese si leva a piena voce contro gli ameri-cani e il loro malcelato tentativo di assoggettare il Giappone e il mondo dietro falsi slogan democratici; il poeta russo, fondatore del Cubofuturismo, prefigura, sotto il segno del trittico vita-poesia-rivoluzione, gli eventi che avrebbero sconquassato ma liberato la Russia dalla vetusta patina di autocrazia zarista, salvo poi sbugiardare il mito rivoluzionario una volta accusato di essere lontano dai dettami del regime e dalle necessità superiori dello Stato.

Mishima vagheggia un Giappone che riscopra le proprie radici culturali, che torni all’età dell’oro, che aderisca nuovamente a quei valori che l’hanno reso grande: abnegazione, sacrificio, dedizione al proprio dovere. Il 25 novembre 1970 Mishima si toglie la vita con un gesto d’altri tempi e lontano anni luce dalla sensibilità comune: il suicidio rituale, il seppuku (spesso erroneamente confuso con l’harakiri), un’uscita di scena pirotecnica, perfettamente concorde al suo stile provocatorio e preparata con una  freddezza proverbiale. A partire dal biglietto che lascia uscendo dal suo studio e andando incontro con fierezza al suo destino ineluttabile: “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”. L’epilogo tragico di Mishima è al contempo l’apice e la sintesi di una poliedricità vissuta sempre in maniera irrequieta: le difficoltà a relazionarsi con gli altri, la presunta omosessualità, il matrimonio contratto solo per compiacere i genitori, i viaggi in Occidente, l’amore per la Grecia e la classicità, il fascino insondabile che l’essere per la morte esercita su di lui e che concretizza più volte nel suo corpus letterario prima che su se stesso.

A tutta prima, invece, il suicidio del poeta russo sembrerebbe meno teatrale: il 14 aprile 1930 pone fine alla sua esistenza con un colpo di pistola al cuore ma, analogamente al suicidio di Mishima, anche quello del poeta russo viene pianificato con estrema lucidità: la lettera di commiato dal mondo, intitolata “A tutti”, è datata 12 aprile, due giorni prima del gesto. Si dice tanto sulle presunte motivazioni che lo hanno spinto a togliersi la vita: le sopracitate incomprensioni via via sempre maggiori con il governo sovietico, le insoddisfazioni di una vita che vedeva scivolargli via, le delusioni amorose. Guardando più a fondo però vi è una motivazione più alta che spinge il poeta a tale gesto. L’agire di Majakovskij è pervaso da un imperativo categorico di sfida alla morte: e il suicidio si ascrive a quest’anelito. D’altronde nota è la passione dello scrittore per il gioco d’azzardo e, nell’ottica del poeta-titano, non è forse il gusto della competizione e del confronto a spingerlo a mettersi a tu per tu con Caronte?
 
“A tutti. Se muoio non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi: il defunto non li poteva soffrire. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno Governo, la mia famiglia è Lilja Brik, mia madre e le mie sorelle e Veronika Vitol’dnovna Polonskaja. Se agirai affinché abbiano un’esistenza decorosa ti sarò riconoscente. I versi qui iniziati dateli ai Brik, loro sapranno che farne.

Come si dice,
l’incidente è chiuso:
la barca dell’amore
si è spezzata contro gli scogli banali della quotidianità.
La vita e io siamo pari,
inutile elencare
offese,
dolori,
torti reciproci.
Voi che restate siate felici”.





Antonio Felline


giovedì 20 settembre 2012

Due ‘voci’ per un Dizionario dei presenti affanni


1. Visibilità.

   Che cos’è la visibilità? La possibilità per qualunque oggetto di farsi percepibile all’occhio di un osservatore. Un dato fisico suscettibile di assumere una connotazione diversa (si potrebbe dire ‘morale’?), sempre entro il suo orizzonte semantico e dalle minime possibilità, condotto – parrebbe – alle audaci navigazioni in mari ignoti della conoscenza. La ‘visibilità’ si concretizza in quello che il nostro sguardo raccoglie: un colore freddo o brillante, una forma nello spazio, la percezione della velocità o della lentezza di un corpo in movimento, la calma immobilità di un essere in riposo, il moto regolare di lente onde sulla battigia, e tanto altro. Visibilità procede anche dall’elemento che consente di definirla: ciò che la luce suscita definendo e permette di riconoscere: un albero verdeggiante, la superficie quieta di un lago, il volo di un uccello o di un aereo dentro la luce azzurra di un mattino soleggiato, il magico palpebrare di fuochi astrali sul fondale della notte…
   L’elenco si allungherebbe enormemente se si volesse registrare ad una ad una tutte le varianti del rendere/rendersi visibile degli aspetti innumerevoli delle cose. Si aggiunga quello che il sentimento rende visibile benché rimanga nascosto: un colore o una forma mentale, l’immagine d’una potenziale costruzione, quanto di virtuale riposa inesplorato nei giacimenti dell’immaginazione; un gesto essenziale mai venuto alla luce, una scena ricostruita dalla memoria, il sogno d’un fiore unico da cogliere per esprimere un amore… Una visibilità interiore, insomma, ricca di promesse e prodiga di favorevoli occasioni.
   Di fronte a tutto questo si erge ottusamente il muro di un’altra ‘visibilità’ che sempre più oggi tende ad imporsi ed è cercata affannosamente e considerata necessaria ai canoni del moderno vivere. È quella che il GDLI (Grande Dizionario della Lingua Italiana), conosciuto anche come “il Battaglia”, definisce «esibizione eccessivamente ostentata di qualcosa». Il nesso visibilità/esibizione è già per sé preoccupante. Non basta che un oggetto sia percepibile nella corrispondenza tra definizione e cosa («La rosa è la rosa»); si sente come inadeguato il semplice allineamento dei dati. Semplicità non giova. La cosa vista deve essere, per così dire, ‘stravista’. Si tratta di rinforzare forme, colori, collocazione in un contesto, superlatività nell’apparire. L’esibizione provvede a una super-epifania dell’oggetto; bisogna assicurarsi che una rivelazione non passi inosservata. L’esibizione assicura alla visibilità un più alto grado di percepibilità, richiama l’attenzione sulla cosa esibita accentuandone i dati, esaltandone alcuni caratteri, creandole intorno una cornice di forte (o vistoso) richiamo. All’esibizione detta “visibilità” si chiede che susciti un interesse straordinario. L’oggetto esibito deve avere il primo piano, richiamare l’attenzione di fotografi e telecamere, deve finire sulle prime pagine dei giornali. È così che, finalmente, la ‘cosa’ – quale che sia – si mostra nella sua esaltata/esaltante ‘cosalità’. Sotto la luce dei riflettori si mostra meglio ed è, si pensa, più visibile.
   Nel frutto esibizione entra però il verme che ci si scava la casa. L’esibizione è un frutto bacato; fosse lasciata così com’è può essere considerata una delle tante forme attraverso le quali chi vale poco crede di valere molto. Forse anche un morto pensa (o ha pensato quando era vivo) che il suo funerale è più importante se c’è una piccola stonata banda di paese a strimpellare sui passi del corteo funebre.
   La definizione del vocabolario rincara la dose quando, accanto alla parola, esibizione, aggiunge quell’«eccessivamente ostentata» che rimuove ogni dubbio su ogni possibile recupero in positivo di un atteggiamento che nell’eccesso trova la sua ragione e la sua consistenza.
   Non ci sono stati tempi esenti da forti pulsioni alla visibilità e, necessariamente, alla visibilità degli esseri umani desiderosi di mostrare di sé, sempre, quanto credono costituisca il meglio delle proprie capacità e della propria personalità. Ne è venuta fuori una figura ora curiosa, ora antipatica, ora anche guardata con ammirazione: quella dell’esibizionista. Ogni richiesta di visibilità induce all’esibizionismo, lungo un itinerario da virtù sconosciuta qual è quello mirante ad assegnare nel mondo un posto a coloro cui competa perché “eccellenti” in qualche attività ‘intellettuale’.
   La visibilità è l’ingrediente indispensabile, il brodo di coltura della personalità richiesta dal nostro tempo. Canori infanti, in un delirio di familiare ammirazione, si rendono visibili con l’esibizione di un’ugola promessa ai fasti dei teatri d’opera o degli infiniti festival canzonettari sparsi fin nei più remoti angoli del Bel Paese. All’esibizione dei Beatles o dei Pavarotti del futuro fa da pendant, piacevole alla vista ma di esasperante monotonia, l’incessante sfilata di veline, aspiranti attrici, miss per tutte le occasioni e le denominazioni. In quelle sfilate la visibilità è assicurata; non c’è bisogno nemmeno di alimentarla con qualche trovata geniale. E in quelle sfilate l’eccesso della esibizione non è nemmeno il caso di costruirlo: fa parte integrante – e fondante – della manifestazione. Solo che l’abbondanza delle occasioni, la generosità dell’esposizione di rotondità ad altezza medio-alta, i lunghi steli di gambe perfette finiscono per ottundere – con la loro inesorabile ripetitività – lo slancio di un desiderio naturale: la gara (sportiva, per così dire) prevale sul sano istinto. Inutile ricordare che in questi casi l’eccesso è carnalmente coniugato all’ostentazione. E l’ostentazione è una superfetazione dell’eccesso intrinseco all’esibizione.
   Tra gli affanni dell’oggi, i ‘presenti affanni’, la visibilità è l’anima tormentosa della nostra vita. Tutti aspirano a farsi vedere (= rendersi visibili). C’è chi lo fa scrivendo poesie e romanzi a causa dei quali la letteratura dovrà arrossire a lungo e vistosamente; c’è chi lo fa imboccando (esempio di “vita spericolata”) tutti i semafori che stiano incongruamente bloccati sul rosso quando il verde vivace e giovane preme nelle vene del centauro fremente; c’è chi lo fa mettendosi a fare il cretino, disturbando la ripresa, mentre un cronista televisivo svolge il suo onesto lavoro; c’è chi lo fa compiendo strani gesti davanti a pensose casalinghe afflitte dal rincaro della spesa e che non hanno occhi né sentimenti per esibizioni di sorta, neanche davanti a quelle “eccessivamente ostentate” di chi vorrebbe ad ogni costo attirare la loro attenzione.
   Poiché i tempi cambiano, accade che cambino anche modi ed intenzioni esibitorie. Tramontata pare – nessuno più ne parla o se ne accorge – quella dell’esibizione estemporanea dei genitali da parte di qualche poveraccio così disturbato da credere che l’epifanica apparizione del proprio sesso debba far tramortire di colpo le giovani commesse che la mattina si recano al lavoro con gli occhi ancora sigillati da un tenace residuo di sonno. Gli esibizionisti ‘sessuali’ pensano che Adamo rivelò ad Eva le proprie segrete possibilità comportandosi come loro. Vero è, invece, che Eva, creatura del sonno e del sogno di Adamo, scoprì da sola la faccenda; e con ogni agio, visto che lo sposo destinatole dormiva profondamente.




2. Vivibilità.

Si veda la ‘voce’ precedente. Se ne dedurrà, forse, che, a riflettere bene sulle condizioni di visibilità sopra descritte, la vivibilità è un optional.

                                                                                            Luigi Scorrano 


mercoledì 19 settembre 2012

Schopenhauer in cinque piccole lezioni


Prima lezione: la natura contrapposta allo spirito

1.  Il filosofo impara dalla vita e non dai libri. Ma per capire bene un filosofo bisogna vedere a quale filosofo reagisce. L’ha detto Bergson, e non ha detto una cosa peregrina: ogni filosofo pensa in reazione a un altro pensatore. Ai filosofi si applica la legge che uno dei primi filosofi greci, Anassimandro, applica a tutti gli enti: essi sono commessi alla fine, “secondo l’ordine del tempo”, per una legge di giustizia. Cioè perché, con l’unilateralità che ciascuno rappresenta e non può non rappresentare, infrangono l’unità, la compattezza, l’integrità, l’universalità della vita. È come il reato che, con la sua sporgente unilateralità, sfonda l’ordine giuridico. Il filosofo successivo è la correzione e l’incremento, per contrasto e integrazione, del filosofo precedente, in corrispondenza della successione delle epoche, che i filosofi sempre rappresentano e che sono, come ha detto Platone, le facce cangianti dell’eternità.
A chi reagisce Schopenhauer? Schopenhauer reagisce a Hegel. In parte, vedremo, anche a Kant (per integrazione), ma soprattutto a Hegel (per contrasto). Giorgio Colli, grande schopenhaueriano, dice che il dieci per cento dell’opera di Schopenhauer è fatto di insulti a Hegel. Ma tutti questi insulti non pesano quanto pesa quello che secondo noi è il vero insulto alla filosofia di Hegel: la filosofia stessa di Schopenhauer, quella da lui fatta in gioventù, serenamente e non per insultare Hegel. Hegel aveva fatto l’ultimo grandioso tentativo di divinizzare il mondo, con l’aiuto del nostro sesto senso, il senso storico. Schopenhauer sconsacrò il mondo, diabolicizzò la natura, come aveva già fatto Aristotele, ma in modo più concentrato, potente, totale e dettagliato di Aristotele. La filosofia di Hegel e quella idealistica in genere, cioè anche di Fichte e Schelling, fino al suo tardo seguace Benedetto Croce, è una filosofia dello Spirito, dell’Idea, della razionalità, del soggetto, dell’attività, della libertà, dei valori; dunque per impianto è una filosofia della positività, una filosofia ottimistica. In essa non c’è veramente spazio per la natura. Per la natura, anzi, c’è noncuranza e disprezzo. Il cielo stellato è un cielo con la lebbra, cioè le stelle sono la lebbra del cielo. La natura stessa non è niente di essenziale, è un concetto artificiale, una costruzione umana.
Per evitare il dualismo di spirito e natura, di soggetto e oggetto, si scioglie la natura in spirito, l’oggetto in soggetto; la natura si identifica “col pratico processo dei desideri, degli appetiti, delle cupidità, e delle congiunte commozioni, dei piaceri e dei dolori” del soggetto, ossia con la sua vita passionale, coi suoi stimoli e impulsi, con le sue soddisfazioni e insoddisfazioni risorgenti, con la “sua varia e molteplice commozione, che è ciò che si fa materia della intuizione e della fantasia e, attraverso essa, della riflessione e del pensiero”, come dice Croce. Ma in tal modo si salta, con la natura, il male della natura: i terremoti e i maremoti, gli tsunami, le siccità, le carestie, le epidemie, le inondazioni, gli incendi, gli uragani e la struttura piramidale degli esseri, dove quelli che stanno sopra, armati di zanne, artigli, veleno o armi da fuoco, si nutrono di quelli che stanno sotto, salvo eccezioni in contrario; per non parlare dei mali umani, che sono pur sempre mali della natura: le ingiustizie, i delitti, le guerre e le stragi, dimostratesi finora ineliminabili, e il destino di dolore, vecchiaia, malattia e morte, che incombe su noi tutti.
A questa filosofia dello Spirito si oppone la filosofia di Schopenhauer. Essa è la filosofia della natura, dell’irrazionale, dell’oggetto, della passività, della necessità, della servitù, del fatalismo, della negatività, che sono tanta parte della vita, una parte ben maggiore della parte positiva, libera e attiva; dunque per impianto è una filosofia pessimistica. È una filosofia disantropomorfizzata quanto quella di Hegel era antropomorfizzata, una filosofia in sostanza umanistica.
  Sossio Giametta


mercoledì 12 settembre 2012

Vanini e il miracolo di Presicce: ipotesi e interrogativi


“Nella Puglia, che un tempo era chiamata Magna Grecia, si trova una cittadina che risponde al nome di Presicce, poco distante dalla nostra patria. Nel suburbio di quella cittadina fu trovata l'immagine della Vergine Madre di Dio, che secondo la solita consuetudine, tutti veneravano con grande onore e con profondissimo senso religioso. Ne sentì parlare un tale, cieco dalla nascita, il quale, fattosi condurre da un fanciullo o da una cagna, si affrettò a visitare il tempio della vergine, si inginocchiò in atto di adorazione e, pregando liberamente, si addormentò. Quando finalmente si svegliò si accorse di vedere, ma alzandosi si rese conto d'essere diventato zoppo” (G.C. Vanini, Amphitheatrum aeternae providentiae, pp. 72-73).
Il "fatterello" qui riportato non può non destare stupore e incredulità per un miracolo che ridà la vista a un povero cieco e, forse per una sorta di legge della compensazione che varrebbe per alcuni, gli viene tolta la motilità della gamba. Un paradosso di cui Dio si servirebbe per coloro che credono in Lui? Dio che è risposta, quale domanda porgli per ottenere chiarimenti? O magari è “Più saggio rinunciare non soltanto alla risposta, ma alla stessa domanda” facendo propria la citazione di Martin Heidegger? (conferenza del 31 gennaio del 1962 a Freiburg). Il Dio, quel Dio delle piccole cose, che sta dietro la quotidianità degli uomini e che dovrebbe garantire un governo provvidente e giusto perché dovrebbe rendere incomprensibile il suo operato? Quali sono le ragioni in ordine all'incomprensibilità e all'imperscrutabilità di Dio? Dio è stato “presentato” all'uomo attraverso le scritture e i dogmi, e questi fa fatica a riconoscerlo, ad averne la percezione materiale. A quale legge sapienziale dunque l'uomo è costretto a sottostare giacché non gli è concesso il superamento di essa affinché la conoscenza diventi perfezione? “La sapienza si precisa come una conoscenza pratica delle leggi della vita e dell'universo, basata sull'esperienza” (Gerhard von Rad). Risulta quindi conveniente per l'uomo scoprire la sua vocazione di artefice della propria vita in ogni istante del quotidiano per concentrarsi intorno a temi come il destino individuale. E non devono quindi scandalizzare le domande serie e legittime riguardanti la vita umana formulate dal desiderio di conoscenza che si potrebbe definire come una sorta di “teologia pratica”.
Quali sono le fonti a cui attingere sapienza?
Soltanto i filosofi che hanno la lingua sciolta e posseggono lo spirito libero sanno come penetrare nella zona off limits che è mistero e danno struttura al pensiero formulando logiche e risposte in contrapposizione agli assunti della religione, la quale in passato ha impedito e ostacolato ogni ragionamento che non era sottomesso alla fede. L'uomo avverte la potenza che è dettata dal sacro, una forza che lo sovrasta, percepisce di essere dipendente e ha paura,  prova anche fascino e attrazione, ma non avrà risposte, allungherà la sua vita con l'attesa delle domande che non si concludono. La fede lo incatena a Dio e alle sue cose. Chiede e non ottiene. Spera ed è deluso. Non comprende e si dispera. Prega.
Dio ha un fascicolo aperto per ogni uomo, dove annota imputazioni, reati, condanne e premi?
Vanini nell'opera citata, in ordine al miracolo, riporta la risposta di un ateo incontrato in Germania, che pur non respingendo la sua descrizione e testimonianza dell'accaduto escogita due risposte per dimostrare che non c'era stato alcun miracolo.
La prima: “quanto accaduto era da ricondurre all'influsso di un astro che dominava su quel tempio”.
La seconda: “Il cieco fu esaudito nei suoi voti per la forza dell'immaginazione [...] Ci è stato tramandato oralmente che il figlio di un certo re, muto dalla nascita, riacquistò la parola per l'intenso desiderio di soccorrere il padre che fuggiva davanti ai nemici armati”.
La seconda in particolare non convince, lo stesso Vanini nell'ascoltarla sorride. Infatti per come sono andate le cose al cieco, che per aver avuto in dono la vista, ha dovuto accettare un altro svantaggio, risulta legittimo avanzare alcune domande sull'operato di Dio.
Accettando che il miracolo è un fatto contrario alle leggi della natura e per potenza soprannaturale, e dando per scontato che sia opera di Dio, c'è da pensare che nel caso del cieco qualcosa non sia andata bene. Forse Dio si è distratto? E può Dio distrarsi? L'ipotesi è improponibile: rappresenterebbe un modo per umanizzare Dio, considerato che la distrazione appartiene agli uomini, che se ne servono e se ne avvantaggiano in ogni modo ogni qualvolta pongono l'attenzione verso cose più appetibili.
Potrebbe essere stato allora l'intervento di un santo molto quotato a ostacolare Dio nell'esercizio delle sue funzioni. Magari per risentimento, per  non essere stato esaudito per un miracolo di cui avrebbe perorato l'intervento divino. Nel caso in questione sarebbe stato accontentato con una riduzione dell'efficacia miracolistica come contropartita per far valere la sua autorità nell'intercessione dei miracoli.
È lecito anche supporre che la dispensa dei miracoli avvenga dopo la consulta di Dio con i santi, che di volta in volta esprimerebbero e condizionerebbero Dio nell'esercizio delle Sue funzioni. Ma se così fosse, Dio non avrebbe un potere assoluto ma condiviso: presiederebbe il parlamento dei santi come in un sistema democratico e dovrebbe tenere conto delle istanze della maggioranza e della minoranza. Seppure suggestiva questa ipotesi appare un assunto contrario all’onnipotenza e onniscienza che la dottrina cristiana gli attribuisce.
In fondo i santi sono i rappresentanti del popolo devoto che li elegge in funzione di una spinta religiosa forte che è superstizione, credenza, convenienza e speranza.  In alcuni casi le loro figure vengono così esaltate da togliere centralità a Dio. Essi non sono pochi: nelle litanie se ne contano qualche decina, nel calendario un centinaio. Una moltitudine di cui la Chiesa organizza e detta le regole per il culto pubblico. Considerato che la Chiesa non fa i santi ma li dichiara con il processo canonico, sarebbe interessante sapere se Dio poi approva la santificazione di alcuni o di tutti. Ora, immaginando le innumerevoli istanze di ottenimento di un miracolo che pervengono ai santi da parte dei devoti, c'è da supporre la mole di lavoro che incombe su di essi. Non è dato sapere come vengono valutate le richieste e i criteri adottati per l'elargizione del miracolo: Deus absconditus. Nulla deve trapelare. Pascal sentenzia: “C'è abbastanza luce per chi vuole credere e abbastanza buio per chi non vuole credere”.
I filosofi razionalisti, in particolare David Hume, identificando il Creatore con le sue leggi, considerano un evento miracoloso solamente perché l'uomo in quel momento non possiede una conoscenza piena ed esaustiva delle leggi della natura. Baruch Spinoza: “appellarsi a un miracolo è semplicemente un'ammissione di ignoranza”. Nel suo Trattato teologico-politico, afferma che “Niente accade in contrasto con la natura, anzi essa mantiene un ordine eterno fisso e immutabile”, aggiungendo inoltre che:
a) il miracolo è “un evento le cui cause naturali non siamo in grado di accettare”;
b) “in quanto significano una sospensione dei decreti divini, i miracoli ci fanno conoscere Dio meno di quanto ce lo faccia conoscere l'ordine fisso e immutabile delle cose”;
c) “i sacri testi richiamano costantemente, visto l'uso i termini come “decreto”, “volontà” e “provvidenza”, all'ordine della natura e alle sue leggi eterne”;
d) “la credenza nei miracoli è spesso dovuta ad un'erronea interpretazione della Scrittura”.
Le suddette affermazioni sono condivise dalla maggior parte degli scienziati contemporanei, per i quali appunto la spiegazione del miracolo è soltanto supportata dalla fede.
Il miracolo secondo la dottrina cristiana non è soltanto un prodigio, un atto che proviene direttamente da Dio, è un “segno” (Semèion) che manifesta qualcosa di nascosto e invisibile, un'indicazione quindi della presenza e dell'agire di Dio. Nel caso del cieco, Dio ha voluto dare un segno particolare, un avvertimento?
Allora è necessario ritornare sul fatto per analizzarlo in ogni dettaglio.
Vanini dichiara di aver assistito personalmente al grandissimo miracolo ad opera della Beata Vergine, che secondo la tradizione pare sia accaduto nel mese di luglio dell’anno 1596, quando egli aveva undici anni e già dimostrava di possedere una intelligenza vivida e attenta, capace di esplorare il mondo della natura e degli uomini. Si  deve rilevare comunque la sua avversione in ordine alle superstizione popolare, sicché in riferimento ad esse assume il tono beffardo, ironico e dissacrante. C’è quindi da fidarsi del resoconto che fa del miracolo nell’Anfiteatro? È forse frutto della sua grande fantasia e capacità di elaborare e intersecare un alto sentimento di devozione della popolazione salentina verso la B.V. con un racconto miracolistico che ha un risvolto talmente assurdo e inspiegabile?
Non si dispone di elementi biografici inerenti l'infanzia di Vanini per un accenno della sua indole, del suo modo di essere, dei suoi interessi, per capire se egli abbia volutamente giocato sul fatto. È innegabile la sua volontà di studio, tant’è che all’età di 16 anni si trasferisce a Napoli per seguire i corsi di diritto e nel 1606 consegue la laurea in legge presso il Collegio dei Dottori legisti. Nel 1608 si trasferisce a Padova per proseguire la propria formazione teologica, accostandosi ai classici testi della medicina ippocratica e galenica, tanto da acquisire una competenza medica eccellente di cui fa sfoggio nei suoi scritti.
Tutto questo gli avrebbe consentito, otto anni dopo il miracolo, durante la sua permanenza a Padova, di analizzare il fatto con acutezza scientifica.
Vanini alle argomentazione dell'ateo risponde: “Concediamo pure che il muto abbia riacquistato la parola, per la potenza dell’immaginazione, nego però che ciò possa accadere per un cieco. Il muto non riacquistò niente di nuovo, ma solo sciolse i lacci della lingua, effetti questi che la forza dell’immaginazione può produrre in chi non è molto offeso, come, secondo il Pomponazzi, era il caso del figlio del re. Ma dare la vista ad un cieco è cosa ben complessa, perché si tratta di formare gli occhi con tutte le loro sottili membrane”. Come si evince Vanini non propende per una soluzione miracolistica del caso, tra l'altro afferma: “ha recuperato la luce non per qualche miracolo divino, perché non è consuetudine di Dio premiare e punire nello stesso tempo. Trattasi perciò di cosa fatta dalla natura”.
Di certo di imperfezione si tratta. Il povero uomo dovette accettare un ulteriore “castigo”, a meno che non fu un suo espediente per continuare a mendicare, senza ricorrere all’onesto lavoro dei campi per guadagnarsi da vivere. Tesi avvalorata dall’ateo che così sentenzia: “Costui ha finto di essere zoppo pur non essendolo, perché quando era cieco era solito mendicare (e la vita dei mendicanti, si sa, è assai comoda)”.
Ma un miracolato può essere ingrato a Dio, arrivando a mentire e far apparire ingiusta una menomazione fisica ricevuta chissà per quale disegno?
Il tentativo dei teologi di puntellare con sofisticate argomentazioni un mistero della fede o un Glaubensartikel ha solo l'effetto di dare alle fantasticherie della teologia la parvenza della ragione (Francesco Paolo Raimondi, Lo sguardo, rivista di filosofia, n, 6, 2011 (II).
Il chirurgo Maurizio Magnani nel suo saggio Spiegare i miracoli. Interpretazione critica di prodigi e guarigioni miracolose (2004), spiega: “Questo saggio, al pari di altri, ha confermato e ribadito che non è necessario rincorrere ipotesi strane, fantasiose né tanto meno contro o oltre natura. Bisogna però continuare a cercare e a studiare, per giungere a formulare una teoria soddisfacente che sappia rendere ragione delle modalità e delle vie psicosomatiche che l'organismo sfrutta per risanare se stesso. L'auspicio è che, un giorno, sia possibile applicarle a tutti i malati in trattamento, cosicché le guarigioni “miracolose” cessino di essere straordinarie e diventino ordinarie, e gli dèi possano finalmente e definitivamente essere lasciati al loro riposo eterno”. L'autore del saggio analizza secondo scienza le guarigioni straordinarie, senza un'apparente motivazione, liberando il campo della credenza e della fede da equivoci, ambiguità e presunzioni miracolistiche, eliminando tra l'altro false interpretazioni e grossolani errori di valutazione.
Comprendere un miracolo equivarrebbe a spiegare l'esistenza di Dio. Spacciare per miracolo una guarigione inspiegabile potrebbe arrecare offesa a Dio, in quanto estraneo al fatto. Una grande responsabilità quindi dell'uomo a giudicare un ipotetico intervento attribuito maldestramente o con convinzione a Dio.  Nessuno – scrive Vanini – ha mai conosciuto Dio, il quale è accessibile solo a se stesso. Al credente rimane la facoltà di attribuire e ad associare a Dio eventi straordinari, che potrebbero essere spiegati diversamente se non si facesse abuso di fantasia religiosa, con il rischio di alimentare aspettative e vane speranze.
In definitiva, secondo il filosofo taurisanese, Dio lo si conosce meglio non tanto attraverso le sue opere, quanto piuttosto attraverso ciò che diciamo di non capire. Aggiunge: “Lo definiamo sommo bene, ente primo, totalità, giusto, pio, felice, beato, inattivo, sicuro, creatore, conservatore, moderatore, onnisciente, onnipotente, padre, re, signore, remuneratore, ordinatore, principio, fine, medio, eterno, sempiterno, fondatore, vivificatore, donatore, onniveggente, demiurgo, provvidenza, benefico, unico, tutto in tutto. Non di meno ci rendiamo conto che nessuno di tali predicati lo indica manifestamente, quanto piuttosto altri predicati che, direi, scoprono la nostra ignoranza. Di fatto quando diciamo che Egli è immenso, incomprensibile, che altro sappiamo per certo se non che Egli è ed è insieme sovrabbondante?”.
Tra tutti i predicati utilizzati in abbondanza dal Vanini, alcuni meritano una maggiore attenzione, in particolare, “medio” e “inattivo”
Inattivo in quanto non agisce. Immobile. Fermo. Inattivo come un vulcano. C'è, ma è acquiescente. Non vi è nessuna possibilità per qualsiasi rivelazione soprannaturale di Dio, stante l'assenza dell'agire. È evidente soltanto in sé. Il fedele deve essere soltanto timoroso di Dio. Deve considerare di essere sotto lo sguardo di Dio e deve preoccuparsi di piacere più a Lui che agli uomini. Dio osserva e non agisce?
Medio? Perché medio? È un aggettivo: Normale, che si trova a metà tra due estremi come posizione o valore. Dio è medio? Addirittura Vanini lo definisce “primo, medio ed ultimo atto. Infine è tutto su tutto, fuori di tutto, in tutto, oltre tutto, prima di tutto e tutto e tutto dopo tutto”. Vanini mette fra tanti predicati un aggettivo “contrario”, come per significare una voluta contraddizione, al fine di dimostrare la normalità divina che trovandosi appunto nel mezzo, fra due estremi nell'esercizio dei suoi poteri, altera l'equilibrio della Giustizia e del Bene, spostandosi ora in punto ora in un altro, producendo assurdità, incongruenze ma soprattutto sentenze inique, decisioni immotivate. Medietà quindi anche in conformità dell’assunto di Aristotele (in Etica Nicomachea, II, 6, 1106 b8) che è il mezzo, o giusto mezzo, tra gli estremi, ed è definito o in relazione alle cose o in relazione a noi. Se la medietà è una virtù che orienta la scelta, determinata dalla ragione dell'uomo saggio, e il “medio” che ha in mente Aristotele, non è una disposizione alla mediocrità, bensì una disposizione a trovare il “meglio” in ogni circostanza. La medietà quindi non è una media aritmetica ma la predisposizione all'agire ponderato e scelto. È evidente l'intenzione di Vanini nell'includere per poi escludere attribuiti, demolendo le definizioni con le contraddizioni che esse stesse producono.
Le ipotesi formulate sin qui al fine di giustificare un miracolo soltanto a metà, o meglio un miracolo e una sopravvenuta imperfezione, non intendono smontare in alcun modo la struttura ideologica della fede, anzi si devono considerare come la volontà della ragione di avvicinarsi quanto più è possibile alla Verità.
Nella vita di tutti i giorni è inevitabile avvertire un senso di incertezza, se non di confusione. È il sintomo di qualcosa di inconsueto rispetto alla comune fisiologia della ragione, e non deve essere interpretato come un errore logico, ma come una improvvisa anomalia che si manifesta con la perplessità. Ed essa non può essere vinta da nessuna predica o spiegazione dogmatica. Quando si assiste a qualcosa d'insolito che desta meraviglia, come appunto il miracolo, sarebbe prudente non eccedere in valutazioni semplicistiche che col tempo potrebbero risultare inconsistenti e ingannevoli, ma aprire gli occhi e analizzare l'evento in considerazione del fatto che nel mondo non ci sono solo le maiuscole (Bene, Dio, Giustizia, Male), ma soprattutto le minuscole che sono contraddistinte da pochi e provvisori e non eterni beni, piccole giustizie che non risarciscono il male di coloro che lo hanno subito, piccole ricchezze che nel tempo si esauriranno, infinitesimali gioie, minuscole speranze. Il miracolo del cieco è emblematico, Dio o chi per Lui, o qualsiasi altra forza sconosciuta o misteriosa non ha realizzato la completezza di una felicità riposta nella preghiera e nella devozione. Certo non si può pensare egoisticamente di affidare le fortune umane ai santi e a Dio. L'uomo deve agire. È chiamato ad agire con la ragione e per la ragione; e quando l'intelligenza riconosce e accerta la verità, non c'è nessun obsequium o sottomissione da parte sua alla fede.

Ci sono comunque due modi di vivere la fede in Dio: c'è la fede dogmatica, basata sull'autorità di chi parla, a prescindere dal contenuto che viene affermato; c'è la fede non dogmatica basata sul contenuto che viene affermato, a prescindere dall'autorità di chi la esprime. Da un lato si accentua l'autorità e quindi il retto pensiero (ortodossia), dall'altro l'autenticità, vale a dire il bene pratico (ortoprassi). Così appunto Albert Schweitzer, padre nobile della fede non dogmatica del Novecento: “La religione non dogmatica è fino a un certo punto l'erede della religione razionalistica. È etica, si limita alle fondamentali verità etiche, e si sforza per quanto è in suo potere di rimanere in buoni rapporti col pensiero”. È questo un principio molto vicino al pragmatismo. La religione non dogmatica rifiuta di accettare un assunto o un dogma, non ubbidisce, rifiuta di  piegare la ragione all'autorità del dogma.
Il pensiero non va barattato, venduto al dogma o alla religione, deve rappresentare un punto di partenza per qualsiasi attività etica, religiosa o  riconducibile alla semplice quotidianità dell'uomo, ma tra l'altro deve essere connesso alla realtà affinché l'uomo si ricordi della sua esistenza terrena. Senza il pensiero e la continua volontà di riflessione e di elaborazione della realtà, l'uomo abbandona la possibilità di avere un'opinione personale e di decidere in prima persona della propria vita.

Vanini è morto allegramente da filosofo, coerente ai suoi principi che tendevano a liberare l'anima dalle paure, compresa quella della morte. Ha voluto “vedere le carte di Dio e degli uomini” per sviluppare e chiarire le semplici e complesse realtà disseminate nei dogmi e nei precetti religiosi. Non ha voluto accontentarsi di un pensiero già preconfezionato, di una religione che non dava respiro e dettava obblighi di ubbidienza. Ha giocato con la propria vita e con la religione con la consapevolezza che bisognava andare oltre le posizioni ortodosse di una chiesa ancorata al potere e al governo non delle anime ma degli interessi politici e religiosi. Ha pagato con la vita la sua irrequietezza tanto da essere definito da Hegel  “Martire della filosofia” nelle sue Lezioni di storia della filosofia.

Fu un filosofo contro tutti per non condividerne l'ingiustizia e arrendersi ai paradossi della religione. Egli denunciò la menzogna, l'inganno e l'impostura come pesanti strutture di dominio dei governanti nei confronti del popolo. Non era asservito a nessun potere. Fu avversato dai governanti per le sue idee libere che tendevano a liberare il popolo dalle superstizioni e dalle credenze. Fu innovatore per quanto concerne la concezione della natura e dell'uomo che rappresentava la sua idea di società giusta; non ebbe paura di eludere le limitazioni delle istituzioni che imponevano il silenzio e l'obbedienza. La sua vita si svolse nel periodo della Controriforma, sotto il pontificato di Paolo V, che decretò la condanna a morte di Giordano Bruno. Lo spirito ribelle di cui era animato gli fece assumere il ruolo di missionario per la libertà del filosofare.

Il fatto del cieco condito da alcune tesi fantasiose svela per converso l'aspetto irrazionale, e nel caso di prova dell'esistenza di Dio, dimostrerebbe l'irragionevolezza di un agire divino, ma anche l'illogicità di un disegno.
Il pensiero di Vanini è codificato nell'intelligenza di un pensiero puro che traccia percorsi nuovi.
Gli atei o coloro che producono pensiero in difformità della dottrina non sono soltanto eruditi che ragionano male, ma audaci che fanno ricorso alle ipotesi dettate dai ragionamenti per svelare, qualora dovessero riuscirci, inganni interpretativi che inficiano la purezza della creazione e di tutti i sistemi connessi ad essa. Ipotesi e interrogativi, certezze e incertezze che non si possono quantificare,  ma che consentono di valutare - in piena libertà - senza condizionamenti di alcun tipo, affinché poi nel tempo possano rivelare i misteri della natura, così come è avvenuto nel corso della storia per tanti princìpi ingannevoli decapitati dalla scienza. L'ateismo di Vanini non va inteso come forza distruttrice della religione, ma come ha evidenziato Andrzej Nowicki: “Vanini sostituisce e recupera con equivalenti laici molti concetti di cui la religione cristiana si era precedentemente appropriata”.
L'uomo vaniniano può aspirare ad una prospettiva di eternità laica, meno idilliaca di quella  promessa dal Cristianesimo, ma più corrispondente alle esigenze di libertà dell'uomo.

L’evento del miracolo del cieco che qui si è voluto analizzare in piena libertà di coscienza, seppure con scetticismo e ironia, stante le difficoltà di toccare il solido terreno della fede e della scienza deve essere inteso comunque come il desiderio dell’uomo - che su una posizione di neutralità -, attraverso la ragione e i dati storici, ha voluto “irrompere” in un fatto per dare una spiegazione, per quanto sia possibile, dell'accaduto.
La ricerca delle risposte implica un percorso difficoltoso e a volte anche impraticabile, ma in nessun modo bisogna rinunciarvi. Alzare la mano e chiedere in continuazione chiarimenti si deve fare; immaginare domande per inventare meraviglie di risposte si può, e infine chiedersi se mai sia veramente così.
Si può dunque accettare l’ipotesi del miracolo per pura fede fiduciale, oppure si può considerarlo inspiegabile e riconducibile alla natura. Dio non vuole forzare l'uomo a credere in Lui con segni troppo chiari e inequivocabili, esige soltanto fede, giacché nel caso Egli si scoprisse interamente, da parte del credente non ci sarebbe alcun merito nell'adorarlo. Potrebbe allora sembrare che Tutto sia nel dubbio, ed è dubbio, invece è soltanto questione di credere o non credere. Il credente avrà la luce di dio, il non credente la luce della ragione.


Elio Ria


giovedì 23 agosto 2012

Una intricata ragnatela: filosofia della pizzica


Mi sono innamorato della pizzica come di una “beddha vagnona te lu Capu...”
Con lo stesso carico emozionale, con una folgorazione improvvisa e profonda che mi ha portato inaspettatamente ad entrare in una dimensione parallela.
Che in fondo era lì, accanto a me, da tutta la vita, ma che non conoscevo e alla quale non avevo mai permesso davvero di attraversarmi.
È stato un incantesimo dovuto a quel potere ipnotico e alchemico che la pizzica, sono sicuro, ha.
Ed in un attimo, mi sono ritrovato a varcare la soglia, ad essere accolto in un popolo di tarantati, a parlare con un linguaggio del corpo che non sapevo mi appartenesse, ad inseguire un fitto calendario di impegni, a dipanare il filo di una intricata ragnatela. Per poi esserne catturato, inebriato, avvinto.
La pizzica non è solo musica e canto. È un codice che tocca corde profondissime.
Ballare la pizzica significa conoscere il tormento e l'estasi, il pathos e la catarsi. È un'attività psicofisica che ti rende caratterialmente migliore.
Significa sentire il battito congiunto... del tamburrello e del cuore…!
Perché la pizzica è un fatto di sangue. Di terra. Di sale... d'amore...!
E dovrebbe essere coltivata come un'arte, tramandata come un bene prezioso. Trasversalmente. A tutti.
Insegnata nelle scuole. E io mi impegnerò a realizzare questo progetto!
La pizzica è il salentino canto di Orfeo.
È la colonna sonora, la pulsazione di un luogo vero, audace, profondo, importante... il nostro Salento.
La pizzica è “la vita noscia e ci la balla campa cent'anni...!”

Antonio Quarta
(Amministratore Unico Quarta Caffè S.p.A.)


mercoledì 8 agosto 2012

“Il bue squartato e altri macelli”: la summa di Sossio Giametta


È un lungo e variopinto corso di pensieri quello che si scopre in Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia (Mursia 2012); nel suo ultimo libro Sossio Giametta è incalzato dalle puntuali domande di Giuseppe Girgenti a raccontarsi, per autointerpretarsi, come traduttore e come interprete, come scrittore di racconti e come pensatore, in un lungo dialogo fitto di dettagli e sempre fecondo di riflessioni.

Se la traduzione delle opere di Nietzsche (ma non solo, e si pensi a due nomi dal calibro di Schopenhauer e Spinoza) è stato il grande impegno della vita di Giametta (noto collaboratore per l’edizione critica Colli-Montinari), è stato questo un impegno travalicante il dovere della fedele resa del pensiero in altra lingua di uno degli autori «più ostici, pericolosi e difficili da domare». Mosso dal «gusto quasi infantile» per la lingua, dal «piacere di rendere bene nella propria lingua qualcosa che è bello in un’altra lingua», ed anzi proprio in virtù di questo, Giametta è giunto, grazie ad un incontro così ravvicinato con l’intera opera nietzschiana, a sbrogliare l’intricatissima matassa Nietzsche, risolvendo quell’enigma che ancora egli è per molti.

Per quanto l’irruenza del pensiero nietzschiano abbia fatto pensare a una gigantesca e spettacolare onda anomala alzatasi sopra il mare dell’umanità (finanche a «6000 piedi sopra il livello del mare», secondo il diretto interessato), l’onda sempre parte del mare è, e come tale sempre ad esso ritorna con tutto il suo fragore spumeggiante. Nell’interpretazione di Giametta, Nietzsche non è “a parte” o “superiore” rispetto l’umanità, ma ne è a tutti gli effetti “parte” quale suo organo e strumento, con buona pace della fitta schiera di “nietzschiologi” (loro sì, indomabili e indisciplinati fino allo scadere in casi estremi nell’assurdità e comicità) sempre pronti al saccheggio dell’arsenale ben fornito dei suoi scritti (per riprendere un’immagine di Mazzino Montinari che Giametta riferisce), insensibili o peggio colpevolmente indifferenti all’idea che il tutto dipenda dal senso delle parti.

È per l’appunto Nietzsche il “bue squartato” del titolo, brutalmente strattonato e conteso tra innumerevoli interpretazioni attualizzanti e strumentalizzanti, fameliche della ricchezza del pensiero nietzschiano. In suo soccorso giunge l’interpretazione storico-critica di Giametta secondo il metodo filologico classico, che ne restituisce sì, finalmente, un’immagine globale e compiuta, ma che non lo esonera dallo smettere quelle maschere dietro le quali, suo malgrado, Nietzsche ha indugiato anche troppo a lungo: «non bisogna inseguire gli autori nei loro nascondigli, bisogna stanarli e strappar loro le maschere, perché vengano alla luce del sole e rivelino il loro volto; bisogna portarli dinanzi al tribunale dell’umanità affinché rendano conto del loro operato in funzione del servizio loro richiesto dalla storia e dall’umanità».

Così Giametta racconta di aver scoperto in Nietzsche l’unità e la coerenza sotto la varietà e le contraddizioni, il poeta e il moralista mal celati sotto le vesti del filosofo, e soprattutto di aver scovato la storia sotto la filosofia: “perfino” il filosofo di Zarathustra è a noi pienamente comprensibile solo se lo si riconosce strettamente avvinghiato alla sua epoca, in un legame impossibile da sciogliersi senza incorrere in gravi travisamenti. Proprio il tentativo, a tratti disperato e drammatico, di divincolarsi dalle morse e dai lacci del tempo di cui era ribelle creatura ha fatto di Nietzsche un intransigente inattuale: egli ha sofferto più di chiunque altro, facendosene l’espressione più viva e ardente, della crisi e dei problemi che come correnti marine scorrevano nelle acque più profonde della proprio epoca, e volente o nolente, in essi è sprofondato fino a scorgere sempre più lontana la superficie appena increspata dell’attualità.

Strappare le maschere dal volto di Nietzsche significa, da una parte, riscoprire in tutta la sua forza dirompente il solo vero filosofo dell’immanenza, il «campione della giustizia verso la vita», il suo tentativo di fondazione di una religione laica che celebri la vita in tutta la sua tragica fugacità; d’altra parte, per Giametta, significa anche fare i conti con i suoi “errori” gravidi di drammatiche, sebbene non volute, conseguenze, come Giametta ritiene ad esempio la trasvalutazione di tutti i valori, degenerata nel trionfo dell’animalità e del vitalismo selvaggio.

Il porsi in aperto e intransigente dialogo con i propri “autori” è l’atteggiamento che muove Giametta nel confronto non solo con Nietzsche, ma anche con Schopenhauer: si veda il capitolo Da Nietzsche a Schopenhauer, ricco di considerazioni sulla filosofia de Il mondo come volontà e rappresentazione, per Giametta il libro di filosofia più bello, completo e onesto che vi sia, se pur non esente da critiche puntuali e articolate.  Sconti non sono fatti nemmeno ad altri giganti del pensiero quali possono essere Heidegger o Marx, esempi noti del drammatico intrecciarsi del pensiero con la storia (nel denso capitolo Politica, di ieri, volando alto), per portarli, come detto prima, dinanzi al tribunale dell’umanità a rendere conto del loro operato e per strappare alla filosofia quel velo di innocenza che non le appartiene: anche e soprattutto questi grandi del pensiero, ribadisce Giametta, hanno sulle spalle pesanti responsabilità: «tutti hanno responsabilità per quel che pensano, dicono e fanno, come gli uomini hanno sempre pensato da che mondo è mondo […] I pensatori hanno certamente responsabilità, un’altissima responsabilità di fronte alla verità. Questa responsabilità è aggravata dalla loro consapevolezza delle conseguenze che le loro idee possono avere». E il peso di tale responsabilità si avverte nei “dinamitici” capitoli in cui Giametta come pensatore, con chiarezza e pochi giri di parole, affronta temi quali il cristianesimo, la Chiesa, fino alla discussione circa l’ammissibilità o meno della pena di morte sotto il profilo filosofico.

Merita considerazione a parte il capitolo di “commiato” rivolto ai giovani pensatori, cui è raccomandato di dedicarsi alla filosofia «solo se non se ne può fare a meno», non nel senso di cedere a una tentazione o ad un vizio, ma nel senso di “viverla” come «il più personale e improrogabile degli impegni» rimanendole fedele sempre e sempre animati da quella “passione divorante” che diviene l’unica forma in cui tale passione può darsi: essa è “dolce” nella misura in cui a tale divorarsi corrisponde «una grande voluttà, la più grande felicità», sì che bisogna dar ragione a Nietzsche nel paragonare il piacere della conoscenza al piacere di generare. Né qui l’aggettivo “dolce” allude a quella dolcezza smielata per cui gli pseudo- filosofi naufragano beati e lieti in un mare di falsi problemi, creati ad hoc da quella “cattiva filosofia” ormai incapace di riflettere sulla vita: «i problemi, deve essere la vita a crearli, non il filosofo», scrive Giametta. Ai filosofi spetta l’arduo compito, se possibile, di risolverli, quando si rendono conto (magari anche con sorpresa e a loro insaputa) di essere saliti su un “treno speciale” e di non avere altra scelta possibile se non quella di proseguire il viaggio.

Simona Apollonio


martedì 31 luglio 2012

Viaggio d’amore nel Salento (di Sossio Giametta)


 Bruxelles, 30 luglio 2012

Caro Mario,

eccomi tornato nell’umido e refrattario Belgio dopo le infuocate e fresche “cinque giornate” salentine! Qui, tornato alla calma e solitudine del mio studio, avrò modo di digerire il pasto da leone – di vita, bellezza, amicizia – fatto in Salento, a partire dalla sua perla, Santa Maria di Leuca, e dalla bella, signorile, ospitale, luminosa famiglia Carparelli: dalla tua famiglia e da te in particolare, artefice magico di questo mio magico viaggio in un mondo dorato, non solo per lo splendore delle terre e del mare, ma anche e soprattutto per il brillare del sole dell’umanità, civiltà e generosità, che accompagnano in Salento ogni vita e attività, a quel che attesta la mia esperienza pregressa e confermata alla grande da queste mie “cinque giornate”.
Il Salento costituisce per me un miracolo: in nessuna cosa moderna, tecnica e tecnologica, imprenditoriale, artistica e letteraria, lo trovo manchevole di qualcosa, anche nell’eleganza e mondanità; ma nello stesso tempo ha conservato tutta la serenità, l’umanità, lo slancio e la generosità che si usa collocare nei tempi andati, in quanto scarseggiano sempre più nelle altre regioni d’Italia, soprattutto al Nord.
Il miracolo dei miracoli è proprio l’imprenditorialità. Ho conosciuto più di un grande imprenditore, e in queste cinque giornate uno in particolare, Antonio Quarta, della “Quarta Caffè”, che realizzano un’armonia tra impresa e lavoro inconcepibile altrove, dove impresa e lavoro sono appunto l’una contro l’altro armati.  D’altra parte Antonio Quarta, non sordo a nessuna umana esigenza dei suoi dipendenti e collaboratori, reinveste gli utili sul territorio, creando sempre nuova prosperità e posti di lavoro. Tutti hanno calorosamente festeggiato nei locali dello splendido Club Azzurro, la sera del 27 luglio, il premio ricevuto dalla ditta Quarta dall’Associazione Regionale Pugliesi di Milano come ambasciatrice della Puglia nel mondo. Negli spazi antistanti l’albergo si sono avvicendati cerimonie (assegnazione ai principali collaboratori di targhe-ricordo), canzoni e intrattenimento, sfilate di superbe modelle ungheresi, balli scatenati (la “pizzica” salentina), tra cui quello trasfigurato, irresistibile e travolgente della sacerdotessa di Tersicore Serena D'Amato. Con lei ha poi ballato a lungo lo stesso Antonio Quarta che, innamorato della pizzica, prende da lei lezioni due volte la settimana. Ma nel pubblico, quante persone belle e amabili, alla mano, civili, aperte alla vita e agli altri!...
Un’altra grande scoperta che devo a te, caro Mario, è stato Fernando Proce, la voce più famosa della radio italiana. Affezionatissimo al “maestro” che l’ha formato e portato alla professione e al successo, Marcello Schiavano, un uomo dall’aria contadina, dal cranio rasato e insomma dall’apparenza ultra-popolare, a parte uno sguardo sciabolante straordinariamente espressivo, una “bestia” di umanità che trasuda generosità da tutti i pori, Fernando è un ragazzone che solo a vederlo ti mette di buon umore, che trasmette un messaggio di umana robustezza, di maschio vigore, ma insieme di contenuto entusiasmo, di misura, raffinatezza e grazia. Sentirlo alla radio RTL 102.5, dove trasmette ogni mattina dalle 9 alle 11, con la sua sempre attiva fantasia e il suo fluido, spiritoso e accattivante eloquio, in profondità serio, è una cura ricostituente, un mattutino messaggio di umanità rasserenante. Nello “sperduto” paesino di Racale, attaccato, caro Mario, alla tua Ugento, ha costruito uno studio di ultima modernità, da cui si collega, attraverso Radio Salentuosi, a tutte le stazioni radio dell’Italia e del mondo.
Come è stato bello, caro Mario, pranzare coi tuoi genitori, con Marcello, Fernando e altri amici giovani e meno giovani, in quel luogo di delizie che è la trattoria Terra Masci di Rino Cordella, sempre pronto a soddisfare i desideri dei suoi clienti, che su mia richiesta mi ha preparato un eccellente polpo in pignatta e una splendida parmigiana di melanzane, senza parlare dei sauté di cozze, degli spaghetti all’aragosta e di altre leccornie che arrivano quasi da sole sulla tavola, per prezzi più che abbordabili, quando non è il trattore stesso a offrire magari a dieci avventori, come anche è accaduto una volta, e come non era mai accaduto e mai accadrà altrove, e meno che mai in Belgio, dove vivo da quarantasette anni!
Ma per una volta, sabato 28, abbiamo lasciato Rino per gustare le delizie di casa Ottino, affacciata sullo splendido porto turistico e sul glorioso circolo velico “Yacht Club Leuca”, di cui sei segretario. Lì l’affettuosa e generosa Maria imbandisce i suoi famosi piatti, che si tratti della genovese o, come questa volta, delle orecchiette con le rape, che nella sua forma vellutata non avevo mai gustato prima. Tutto ciò mentre il gigante buono e cantautore Enzo Ottino (per te Enzottino) – che però dovrebbe chiamarsi, anche per i suoi miti ma frequenti e rumorosi ruggiti all’indirizzo della tenera Maria (estremo lusso da lei concessogli di un assoluto amore), Ottone (Enzottone), se i nomi, come sostiene Socrate nel Cratilo platonico, dovessero esprimere l’essenza delle cose – ci fa sentire l’ultima lullaby da lui composta, da inserire tra i venti pezzi dei due CD che sta preparando.
Ma già il primo giorno, 25 luglio, abbiamo in serata lasciata Leuca alla volta di Tuglie. Qui infatti ci aspettava una bella manifestazione nell’ottima biblioteca comunale, in cui espongono attualmente due bravissime, ispirate e mature pittrici, Francesca Testa e Gabriella Torsello. Su in alto, in terrazza, un pubblico numeroso e attento si preparava ad ascoltare il famoso dantista Luigi Scorrano, che presentava l’ultimo libro di poesie, “Il passo della notte”, di Elio Ria, un uomo e poeta di un candore, di uno slancio e di una generosità assoluti, tutto aperto, con un eterno sorriso, alla vita e alla vita degli altri. Dopo che, invitata al tavolo del presentatore e dell’Autore, ha parlato Gabriella Torsello, un cui quadro è riprodotto nella copertina del libro, ho avuto la sorpresa di ascoltare i più informati e generosi riconoscimenti fatti ai miei studi e un cordiale invito a intervenire con qualche mia parola per illustrare il mio ultimo libro-intervista, Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia, che così dunque è stato a sua volta presentato al pubblico di Tuglie.
Naturalmente non sono mancati i bagni nelle limpide acque di Leuca. Siamo andati, la mattina tardi, al Samarinda, ottimo, moderno e attrezzato stabilimento balneare del lungomare, salutati dal dolcissimo sorriso di Roberta Pirelli, la giovane proprietaria attorniata da uno sciame di collaboratori che, pronti a scattare a ogni desiderio espresso dai clienti, mettono tutti a loro agio e li fanno sentire ospiti graditi. Lì pullulano, caro Mario, le bellezze salentine e i tuoi amici, tutti interessanti. Peccato non aver potuto, a causa del fascino irresistibile di Rino, anche assaggiare le squisitezze del ristorante, di cui si dice un gran bene. Ma sarà, spero, per la prossima occasione.
Uno spettacolo grandioso è stato anche, sabato sera, la festa offerta da Pieluigi Celli, direttore generale (fra tanti altri titoli) dell’università Luiss di Roma, nella sua grande villa con piscina tra Specchia e Taurisano. È stato un peccato, caro Mario, arrivarci quando la cena, chissà come squisita e succulenta, era terminata. Ma c’eravamo attardati a Taviano, dove si era appena svolto l’avvenimento per il quale principalmente mi hai fatto venire a Leuca: la presentazione del mio libro presso il Vico degli scettici, ospiti de “La Busacca”, un vivaio di attori guidato e gestito dal magnanimo e famoso attore Francesco Piccolo. Lì, davanti a uno sceltissimo pubblico – e mi piace ricordare la graziosa Stefania Bocco per l’appassionata attenzione dedicata alla manifestazione – ho cercato di dare al pubblico chiarimenti fondamentali per capire autori e avvenimenti capitali della nostra storia e della storia dello spirito europeo, in ciò aiutato e stimolato da due straordinarie ragazze, salite con me in palcoscenico: una studentessa ventunenne, Erika Sorrenti e una laureata ventiquattrenne, Simona Apollonio. Erika mi ha fatto, con un discorso straordinariamente preciso, articolato e maturo, una domanda importante su Schopenhauer, e, Simona, ribollente di sentimento e di passione nietzschiana sotto la soavità del suo viso d’angelo fiorentino, mi ha invece fatto, dopo un discorso di pari maturità e acutezza, una domanda su Nietzsche. Un pubblico così serio, autentico e motivato mi ha ispirato e spinto a dare il meglio di me, e spero che il generoso ”investimento” fatto col suo invito da Francesco Piccolo non sia stato inutile.
L’ultima bellissima cosa, caro Mario, delle tante che ho vissute e qui descritte sommariamente, è stata la festa dei bambini organizzata da tua sorella Saveria, per il compleanno della sua prima bambina, Laura, nei meravigliosi spazi in vista del mare della villa dei tuoi. Che spettacolo esaltante, vedere tanti bambini gioire insieme e inconsapevolmente apprendere, attraverso il divertimento in comunione, quelle che diventeranno poi la socievolezza e la civiltà delle persone adulte! Che spasso vedere tanti bambini reagire armoniosamente agli incitamenti della brava animatrice, brava anche per il costume alla Disney indossato per l’occasione! Che bello, anche, veder poi tutti i bambini assisi ai piccoli tavoli per quattro approntati in un apposito “ristorante dei bambini”! E vederli infine riuniti, con mamme e papà, intorno al tavolo accanto alla villa per il taglio della torta. Non è la prima festa grandiosa a cui assisto nella Villa Carparelli, ma questa è stata certo la più fresca e graziosa, e in essa c’era certamente, come già alla festa di Celli, buona parte del gotha salentino.
Grazie a tutti, caro Mario, grazie a tutto il Salento, ormai famoso nel mondo e sempre più frequentato dal turismo internazionale, ma grazie soprattutto a te, alla tua abnegazione, con la quale hai minutamente e pazientemente organizzato il mio viaggio, l’ospitalità e i lunghi accompagnamenti più notturni che diurni, prima da Bari a Leuca, poi da Ugento a Brindisi, a cui hai immolato il tuo sonno e le tue pur urgenti occupazioni. Possano la vita e la fortuna compensartene, con qualcosa di più del mio semplice ringraziamento e tenace affetto, per te e per i tuoi e miei cari.

Sossio              

domenica 22 luglio 2012

La Notte di Elio Ria


Sorgente intima della reminiscenza ed esperienza onirica, itinerario della mente verso l’infinito.
È questa la Notte di Elio Ria. Una notte in cui, nel travaglio dello sforzo spirituale e nella proiezione in un abisso indistinto di sogni e realtà, le parole viaggiano su un continuum di immagini, che traducono in realtà poetiche e drammatiche la sostanza cangiante e sfuggente del notturno. Nei componimenti si coglie un’eco silenziosa del cielo notturno degli Egizi, un mondo in cui “la gente vi cammina con la testa in giù e i piedi in alto”.

E in questa ubriacatura di pensieri non poteva mancare la Signora del cielo delle tenebre, la protagonista misteriosa della ricerca del significato, la Luna! Lontana dalle metamorfosi licantropiche e dai movimenti convulsivi di pirandelliana memoria, la divina Selene del nostro poeta ripercorre, con passi più ottimistici, i ritmi della silenziosa luna leopardiana. E non è casuale che, a volte, un bambino interpreti il ruolo di guida e di avanscoperta delle verità tipiche dei nomadi passi del pastore errante dell’Asia.
Numerosi sono i riferimenti alla realtà spazio-temporale, che spezzano i connotati mistici dell’infinito: ‹‹La luna è lì / non tonda / abusata a ovest / il mare senza crepe / acquietato / scalpelli di vento… / compiuto è ormai il giorno / giunge inatteso…/ l’indizio di una notte››. La presenza frequente di “indizi”, molto spesso attinti dai paesaggi di un remoto Mediterraneo, offre la possibilità al lettore-viaggiatore di non perdere di vista l’insieme e di non perdersi nelle strade del buio che avvolge la fatica della ricerca.
A volte la ricerca si fa incalzante, sparuti segni di interpunzione significano un flusso continuo di pensieri reconditi. Poi nuovi colori, nuove sensazioni, nuovi suoni impediscono che la “notte” ceda il “passo” all’oligofrenia del cammino del poeta: ‹‹Dondolano i versi / sui capelli di zenzero / un cielo s’accascia››. Il dondolio, la condizione fluttuante di chi si pone domande di senso, rendono ragione alla vicenda poetica, “la più grande delle illusioni”¸ avrebbe detto Foscolo.
E in tutto questo susseguirsi di emozioni universalizzanti condite da un linguaggio a volte immaginifico e che non di rado cede a tentazioni dionisiache, Elio Ria offre una dimora nictomorfa al poeta che erra nella propria mente. Novalis riconosce che ‹‹il tempo della luce è misurato, ma il regno della notte non conosce il tempo né lo spazio››, quindi il luogo dell’anima ideale per la creazione poetica. Così anche i poeti della gente hanno accesso alla contemplazione dell’ideale e alla facoltà di tradurlo in versi, in parole, tutte al loro posto, come le note di una musica.

È la melodia dell’apeiron, verso cui il Nostro non vuole tendere risalendo ad immagini archetipiche o a schemi marcatamente antropologici: Elio Ria dà voce alla notte della gente con le peculiarità della dimensione quotidiana nelle cui viscere egli indaga i significati più veri e più profondi.
Onorando questa missione, il poeta morrà e vivrà in un infinito ciclo di rinascita e trasformazioni.
 Chi diventerà? Chi sarà? In quale altro mondo troverà dimora? Per un attimo si scorge la possibilità che una dimensione alternativa esista, ed è quella “Prima del principio”: ‹‹Non ci sono pieghe, né indizi di aria / ma l’alba di un dio è ancora oscurità / il cielo è fin troppo infinito all’orizzonte››.
Sospeso tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo si muove Elio Ria. E chissà se il mirabile inganno poetico della “sua” notte non continui anche quando l’incantesimo del sogno svanirà.
Luigi Calsolaro e Manuel De Carli

Recensione a: Elio Ria, Il passo della notte , Lupo Editore, 2012


lunedì 16 luglio 2012

Benedetto Croce, Ultimi saggi

Nell’edizione nazionale (Bibliopolis) delle opere di Benedetto Croce, vanno in libreria gli Ultimi saggi, a cura di Massimo Pontesilli, che in una lunga Nota ne circostanzia la composizione e ne aiuta la comprensione (pagine 592, euro 35). Gli inglesi hanno due parole per dire “ultimi”: latest (i più recenti) e last (gli ultimi). Noi ne abbiamo una sola, e ciò fa sì che Croce abbia dovuto spiegare nell’Avvertenza che gli Ultimi saggi non erano gli ultimi, come credeva che sarebbero stati, perché molti altri ne erano seguiti in altri tredici anni di attività. Egli lasciava però il titolo, per “l’agevole ricerca e citazione degli scritti stessi”.
In questa Avvertenza Croce commenta brevemente le tre parti del libro: I. Estetica; II. Logica ed etica; III. Eternità e storicità della filosofia. I contenuti sono dunque vari e toccano tutte le discipline da Croce trattate, sicché inoltrarsi in questi saggi è un po’ come inoltrarsi nel mare, quando fa caldo come adesso, traendone il rinfresco e la voluttà dell’immergersi in un elemento limpido e delizioso, che accoglie e risana dai morbi di cui è ammorbata l’arzigogolata e pretenziosa filosofia attuale, dove gli autori cercano di imporsi al lettore a forza di brillanti variazioni, pseudomisteri e toni oracolari, invece di accoglierlo, ragionare con lui pacatamente e guidarlo da amico sugli impervi sentieri della ricerca filosofica, così come fa Croce. La ricchezza e varietà di questo libro non devono dunque spaventare: sono doni preziosi offerti graziosamente: quante cose chiariscono, che tanti desiderano capire! In fondo a questi così diversi scritti scorre, come un vasto fiume, un senso unitario ed epocale in cui essi confluiscono appunto come affluenti di un fiume.

Ora, qual è questo senso unitario ed epocale che scorre maestosamente sotto tutte le opere di Croce? Croce lo ha spiegato e lumeggiato in tutti i modi ed esso splende nelle sue opere come un sole. Ma è stato mai capito? È stato mai veramente capito Croce? Croce è stato certo commentato a iosa, in bene e in male, ma è stato più frainteso che capito, sicché si capisce che Nietzsche, per esempio, a un certo punto non volesse più essere conosciuto, dato che ciò avrebbe significato essere frainteso. Frainteso è stato Croce, tanto per cominciare, nel suo famoso saggio Perché non possiamo non dirci cristiani. Esso è stato infatti inteso come una correzione di buonismo e di calore all’arida e fredda laicità altrimenti sostenuta, mentre rappresenta la pietra miliare di tutta la missione filosofica di Croce, che comprende sì l’amministrazione e trasformazione della grande eredità degli idealisti, ma non si limita ad essa. Croce non è un protagonista dell’età moderna, è l’apostolo di essa. Egli ha colto la più profonda esigenza che il tramonto sostanziale del cristianesimo, consumatosi alla fine del medioevo, comportava: il rinnovamento della spiritualità cristiana in altra forma, cioè in forma laica ma non per questo inferiore per ispirazione ed entusiasmo allo spirito cristiano. Perché, è chiaro che lo tsunami laico, critico-scettico-distruttivo, è il primo maxifenomeno provocato da tanta rovina. Montaigne e gli altri moralisti francesi ne sono chiari esempi. Ma l’uomo ha un bisogno ineludibile della più alta spiritualità, diciamo pure che non può vivere senza religione. Esauritasene una, deve succederle un’altra. Ma per edificare una nuova religione non basta criticare l’antica. Non basta capire, come solo Croce ha così ben capito, i progressi in senso laico che gli eventi capitali della storia dell’epoca rappresentano, come quando per esempio dice: “il Rinascimento cercò l’antichità greco-romana e trovò la realtà e la natura, e la Riforma cercò il cristianesimo evangelico e trovò il libero pensiero e la critica”. Occorre passare a una religione che abbia la stessa potenza spirituale di quella mitologica antica, il che non era e non è ancora oggi un compito facile.
Il primo a varare una vera e propria religione laica, immanente, la religione dell’amore per la vita caduca, per “l’oro prezioso dell’essere”, come dice un poeta sconosciuto (Antonio Di Nola dell’università di Salerno), era stato Nietzsche, in particolare nello Zarathustra. Ma Nietzsche non si era reso pienamente e fermamente conto di questa sua altissima missione, che dava senso unitario all’età moderna e costituiva l’approdo del processo che fino a lui si era svolto sui due versanti, quello laico-scettico appunto (Montaigne, Spinoza ecc.) e quello conciliante col passato (Cartesio, Malebranche, Leibniz, Hegel ecc.); poi, incattivitosi col cristianesimo, era sceso ad affrontarlo in un dubbio duello personale, invece di proseguirne il superamento sull’alto cammino dell’affermazione tragica zarathustriana.

Questa nuova religione è il destino dell’Occidente. Ma essa non si afferma da sola. Si afferma grazie ai suoi apostoli, alcuni dei quali sono stati Bruno, Spinoza, Goethe e Bertrand Russell. Ma l’apostolo di essa, preminente per chiarezza e sicurezza di sé, è stato appunto Croce, con la sua religione dello Spirito, dei valori nel loro continuo farsi storico. Ciò soprattutto egli dice nel suddetto saggio (Perché ecc.) e ciò ribadisce in questi Ultimi saggi, in particolare nelle due parti di Le due scienze mondane, l’Estetica e l’Economica, e nell’indirizzo inviato al sesto Congresso internazionale di filosofia di Cambridge, Mass., nel settembre 1926, Punti di orientamento della filosofia moderna.
Ma affluenti di questo gran fiume sono, come abbiamo detto, tutti gli altri saggi, di esposizione e delucidazione dei tanti problemi che questo maestoso movimento moderno ha suscitato sul suo cammino, e capolavori artistici oltre che filosofici sono certe trattazioni, come per esempio La grazia e il libero arbitrio, L’apoliticismo (la questione dell’intellettuale organico), Ciò che la filosofia non deve essere: la filosofia tendenziosa, mentre esempi preclari della sua generosità e giustizia sono altri saggi, come la rivalutazione dell’estetica di Schleiermacher e le note in margine al “Vom Kriege” di Clausewitz. Esempi della sua energia combattente sono infine la sua avversione alle teorie del comico, alla filosofia della natura, all’unità panlogistica di Hegel, alla filosofia accademica e alla figura pagliaccesca del “filosofo” di vecchio stampo. Anche in filosofia, credetemi, si può andare al mare a rinfrescarsi. Andate, cari lettori, al mare con Croce. 


Sossio Giametta