domenica 23 settembre 2012

NEL SEGNO DI M.

“Non so dei vostri buoni propositi
 perché non mi riguardano
 esiste una sconfitta
 pari al venire corroso
 che non ho scelto io
 ma è dell’epoca in cui vivo
 la morte è insopportabile
 per chi non riesce a vivere
 la morte è insopportabile
 per chi non deve vivere
 lode a Mishima e a Majakovskij”

Mai banali, i CCCP conchiudono il lato A di “Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi. Del conseguimento della maggiore età” con “Morire” dove Ferretti, con parole scheletrite ma profetiche narra il senso di una (de)generazione nata sotto l’egida del consumismo più becero.

Perché citare Mishima e Majakovskij? All’indomani del secondo conflitto mondiale il pensatore giapponese si leva a piena voce contro gli ameri-cani e il loro malcelato tentativo di assoggettare il Giappone e il mondo dietro falsi slogan democratici; il poeta russo, fondatore del Cubofuturismo, prefigura, sotto il segno del trittico vita-poesia-rivoluzione, gli eventi che avrebbero sconquassato ma liberato la Russia dalla vetusta patina di autocrazia zarista, salvo poi sbugiardare il mito rivoluzionario una volta accusato di essere lontano dai dettami del regime e dalle necessità superiori dello Stato.

Mishima vagheggia un Giappone che riscopra le proprie radici culturali, che torni all’età dell’oro, che aderisca nuovamente a quei valori che l’hanno reso grande: abnegazione, sacrificio, dedizione al proprio dovere. Il 25 novembre 1970 Mishima si toglie la vita con un gesto d’altri tempi e lontano anni luce dalla sensibilità comune: il suicidio rituale, il seppuku (spesso erroneamente confuso con l’harakiri), un’uscita di scena pirotecnica, perfettamente concorde al suo stile provocatorio e preparata con una  freddezza proverbiale. A partire dal biglietto che lascia uscendo dal suo studio e andando incontro con fierezza al suo destino ineluttabile: “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”. L’epilogo tragico di Mishima è al contempo l’apice e la sintesi di una poliedricità vissuta sempre in maniera irrequieta: le difficoltà a relazionarsi con gli altri, la presunta omosessualità, il matrimonio contratto solo per compiacere i genitori, i viaggi in Occidente, l’amore per la Grecia e la classicità, il fascino insondabile che l’essere per la morte esercita su di lui e che concretizza più volte nel suo corpus letterario prima che su se stesso.

A tutta prima, invece, il suicidio del poeta russo sembrerebbe meno teatrale: il 14 aprile 1930 pone fine alla sua esistenza con un colpo di pistola al cuore ma, analogamente al suicidio di Mishima, anche quello del poeta russo viene pianificato con estrema lucidità: la lettera di commiato dal mondo, intitolata “A tutti”, è datata 12 aprile, due giorni prima del gesto. Si dice tanto sulle presunte motivazioni che lo hanno spinto a togliersi la vita: le sopracitate incomprensioni via via sempre maggiori con il governo sovietico, le insoddisfazioni di una vita che vedeva scivolargli via, le delusioni amorose. Guardando più a fondo però vi è una motivazione più alta che spinge il poeta a tale gesto. L’agire di Majakovskij è pervaso da un imperativo categorico di sfida alla morte: e il suicidio si ascrive a quest’anelito. D’altronde nota è la passione dello scrittore per il gioco d’azzardo e, nell’ottica del poeta-titano, non è forse il gusto della competizione e del confronto a spingerlo a mettersi a tu per tu con Caronte?
 
“A tutti. Se muoio non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi: il defunto non li poteva soffrire. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno Governo, la mia famiglia è Lilja Brik, mia madre e le mie sorelle e Veronika Vitol’dnovna Polonskaja. Se agirai affinché abbiano un’esistenza decorosa ti sarò riconoscente. I versi qui iniziati dateli ai Brik, loro sapranno che farne.

Come si dice,
l’incidente è chiuso:
la barca dell’amore
si è spezzata contro gli scogli banali della quotidianità.
La vita e io siamo pari,
inutile elencare
offese,
dolori,
torti reciproci.
Voi che restate siate felici”.





Antonio Felline