lunedì 28 maggio 2012

About Paris


Parigi cambia! Ma niente, nella mia melanconia,
s’è spostato: palazzi rifatti, impalcature,
case, vecchi sobborghi, tutto m’è allegoria;
pesano come rocce i ricordi che amo […].
Città brulicante, piena di sogni, dove
in pieno giorno gli spettri adescano i passanti!

E si potrebbe proseguire oltre. La voce di Charles Baudelaire si leva inconfondibile, specchio unico ed irrepetibile di una nuova età del mondo. Siamo nella seconda metà dell’Ottocento, a Parigi, in una Parigi che si rinnova, che vive negli spasmi della trasformazione. La città cambia pelle, diviene una metropoli, costituendo lo scenario dentro e intorno al quale l’uomo civilizzato inizia a fare esperienza della dialettica progresso/regresso. Seppure con toni e accenti differenti, ritorna in Baudelaire il tema, tipicamente settecentesco, della corruzione dell’uomo civilizzato e della perdita della sua purezza originaria: «Che cosa sono i pericoli della foresta e della prateria – scrive Baudelaire – paragonati agli scontri e ai conflitti quotidiani della civilizzazione?».
L’euforia del “nuovo” e del “rapido” (che poi diventeranno, di lì a poco, alcuni dei pilastri centrali del Futurismo) ancora non consente, all’uomo comune, di cogliere appieno la tragicità di tale dialettica; azione, invece, che può compiere il genio, l’artista, il letterato. Baudelaire incarna senza dubbio, e non potrebbe essere altrimenti, l’ésprit du temp, ma, come ogni genio, lo attraversa, lo percorre, lo studia, lo comprende, lo critica, lo supera. Del nuovo mondo Baudelaire coglie le possibilità e le virtù, ma soprattutto la limitatezza e l’orrore, nella consapevolezza di vedere ciò che gli altri non potevano vedere, di sentire ciò che ancora gli altri non potevano sentire. Scrive Baudelaire:

Quanto a me, che a volte sento in me la ridicolaggine di un profeta, so che non ci troverò mai la carità di un medico. Perduto in questo mondo orribile, preso a gomitate dalle folle, io sono come un uomo fiaccato il cui occhio non vede dietro di sé, negli anni profondi, altro che disillusione e amarezza, e dinanzi a lui nient’altro che una tempesta in cui non c’è niente di nuovo, né insegnamento, né dolore.

Particolarmente esemplificativa dell’esperienza del “negativo” tipica del mondo moderno e civilizzato è la lettura mattutina del giornale. Il quotidiano, in quanto rapporto giornaliero sui fatti e sugli eventi del mondo, rappresenta tendenzialmente lo specchio dello stato delle cose. «È impossibile scorrere un giornale qualsiasi, non importa di che giorno o mese o anno, senza trovarci ad ogni riga i segni della più spaventosa perversità umana, contemporaneamente alle vanterie più sorprendenti di probità, di bontà, di carità, e alle affermazioni più sfrontate relative al progresso della civiltà. Ogni giornale, dalla prima all’ultima riga, non è altro che un tessuto d’orrori». Un tessuto d’orrori. Questo è il mondo moderno, questa è la Parigi che si avvicina al xx secolo, questo è il palcoscenico triste, nella sua eccitazione, e desolante, nel suo dinamismo, che Baudelaire vive e tratteggia, facendo «rivivere l’infinito e l’eterno nella contingenza, nell’effimero, nello spleen che domina la modernità (la metropoli parigina e i suoi «passaggi», la moda, la prostituta, l’inedito vincolo dell’artista con il mercato, la folla, le merci, ecc.)».
Baudelaire incarna lo spirito del dandy, del flâneur, come anche quella del rôdeur (vagabondo) e del promeneur (passeggiatore). E non è un caso che uno dei titoli da lui progettati per la raccolta Spleen de Paris fosse Le rôdeur parisien. Vagabondare e passeggiare tra le vie della grande città, addentrarsi nei territori e nei meandri più oscuri, incerti ed abominevoli, significava essenzialmente perdersi, smarrirsi, sperimentare l’irrazionalità e l’illogicità dei labirinti metropolitani. Si trattava, probabilmente, di un perdersi come inizio, come conquista degli spazi, come incipit di un orientamento smarrito o mai posseduto: «Perdersi in questi casi è la condizione d’origine, il bisogno ed il terreno su cui si comincia o si ricomincia ad orientarsi. Dal perdersi all’orientarsi c’è un processo culturale, l’uso delle occasioni esterne, indifferenti, per volgerle a nostro favore, il piegare l’estraneo a divenire accogliente, a permettere di dimorarvi».
Il passeggiare ed il perdersi assumono in Baudelaire un’intonazione peculiare, costituendo un coatto e costante gioco di rinvii tra l’attrazione per il malsano universo metropolitano (l’osservazione quasi ossessiva) e la fuga implacabile nella rêverie, nella «camera di sogno», nelle fantasticherie che, sebbene transitorie ed illusorie, uniche potevano prendere la forma di un altro mondo, lontano dall’orribile invivibile realtà. Il genio parigino fa continua esperienza di una duplicità inevitabile alla quale non può resistere e non può sottrarsi: progresso/regresso, realtà sociale/sogno, passato/presente, incivilimento/civilizzazione, solitudine/moltitudine, tragedia/farsa, poeta/saltimbanco, riso/pianto, ecc. Baudelaire, nelle prose dello Spleen, componeva in fondo metafore su colui che voleva essere percepito essenzialmente come doppio:

il poeta che è entrato nel mondo per un «decreto delle supreme forze», e che comprende «il linguaggio dei fiori e delle cose mute», – scrive Giuseppe Montesano – è la stessa persona che ne Le vieux saltimbanque, coperto dagli stracci di un saltimbanco ridotto in miseria, ha abdicato al suo dominio sulla parola nel mutismo più assoluto. Strangolato dalla mano dell’isteria, il poeta che contempla nello sfacelo del saltimbanco il suo sfacelo, è accecato da «lacrime ribelli» […]. L’ultimo gradino è sceso, il tragico si avvia ormai ad essere leggibile solo come farsa: per chi ha perduto l’aureola, riso e pianto si sono confusi in un inestricabile, irreparabile sfregio sul volto della bellezza.

Nella Parigi di fine Ottocento, quell’angoscia e quel profondo turbamento (legato, in Baudelaire come in Rimbaud, alla perdita dell’individualità) si trasferisce nel corpo sociale, accentuando progressivamente il bisogno di distrarsi nell’eccezionale, di provare uno choc liberatore, finendo col decretare una metamorfosi capitale al termine della quale la massa si trasformerà definitivamente in pubblico.

Giacomo Fronzi


domenica 13 maggio 2012

Muamba ovvero le esperienze di pre-morte


Capiremo mai il vero significato della morte? Saremo mai in grado di scoprirne almeno in parte i suoi misteri? Potremo mai sapere se l’anima, ammesso che esista, continui a “vivere”, anche dopo essersi separata dal corpo? Probabilmente tutti questi resteranno per sempre i grandi quesiti irrisolti nella storia del pensiero dell’umanità, ma, come ci suggerisce Platone: filosofare significa prepararsi a morire.
Le descrizioni platoniche della morte sono in tutto simili a quelle di cui si parlerà in seguito: la morte, dice il filosofo, è la separazione della parte incorporea (l’anima) dalla parte fisica (corpo). L’anima separatasi dal corpo può incontrare spiriti di trapassati, conversare con loro e venir guidata, nel passaggio dalla vita fisica all’altra vita, da spiriti custodi. Il corpo è la prigione dell’anima e la morte è come una fuga o una liberazione dal carcere. L’anima entra nel corpo venendo da un più alto e divino regno e la nascita è dunque il momento del sonno e dell’oblio, poiché l’anima, quando entra nel corpo, passa da uno stato di profonda consapevolezza ad uno stato di ben minore lucidità e dimentica la verità che conosceva prima.
La morte, implicitamente, è un risveglio, un ritorno alla memoria. Tuttavia, pur credendo fermamente ad un’idea di morte così intesa, è sempre difficilissimo affrontarla e non vi sono mai cause o condizioni definite tanto fondate e ragionevoli da giustificare la morte di un essere umano, anzi, molto spesso esse ci appaiono assurde e paradossali.
Basti pensare alle ultime vicende di cronaca: nel giro di poco più di un mese, nel mondo dello sport, sono stati registrati quattro casi di giovanissimi atleti o ex atleti colpiti da arresto cardiaco: F. Muamba, unico sopravvissuto, V. Bovolenta, F. Mancini e P. Morosini. 
Queste inconcepibili morti hanno acceso l’importante polemica sull’inadeguatezza dei controlli medici nel mondo dello sport e diffuso una ammirevole campagna nazionale di sensibilizzazione per l’installazione di defibrillatori presso tutti gli impianti sportivi, perché è noto che, dopo un arresto cardiaco, ogni minuto perso equivale al 10% in meno di possibilità di salvare una vita.
A tal riguardo, va segnalata la lodevole iniziativa del Presidente della Provincia di Brindisi, Massimo Ferrarese, di acquistare ben 40 defibrillatori da distribuire sul territorio provinciale: 38 per gli istituiti scolastici superiori (dove saranno organizzati degli appositi corsi di formazione), uno per il Tribunale di Brindisi e l’altro per la Prefettura/Provincia.
Oltre a tale questione, tuttavia, le recenti morti nel mondo sportivo hanno fatto luce sulla delicata faccenda del rapporto tra il “morire e il tornare a vivere”. Quest’ultima fa particolare riferimento al caso di Fabrice Muamba, ventitreenne congolese e centrocampista del Bolton, il quale, lo scorso 17 marzo, colpito da un grave arresto cardiaco, è svenuto in campo durante il quarto di finale di Coppa d’Inghilterra contro il Tottenham. Nonostante il suo cuore abbia smesso di battere per ben 78 minuti, mentre medici sportivi in campo e in ospedale tentavano la rianimazione, l’asso del Bolton non solo è tornato in vita, ma – ed è la cosa più incredibile - al suo risveglio non ha riportato alcuna lesione cerebrale.

“Temevamo il peggio, è praticamente morto per 78': i 48' da quando è collassato a quando è arrivato all'ospedale e altri 30' dopo. Non c'era verso di rianimarlo, quando siamo arrivati in ospedale e i medici hanno preso in mano la situazione sono uscito in corridoio e ho pianto. Abbiamo usato due volte il defibrillatore in campo, una nel tunnel degli spogliatoi e 13 volte in ambulanza, ma nulla sembrava funzionare. Non credevamo che si riprendesse così in fretta come sta facendo. È incredibile”. Sono queste le dichiarazioni, raccolte in un'emozionante intervista alla Bbc, del medico del Bolton J. Tobin, il primo ad aver soccorso F. Muamba. E sempre in riferimento al caso Muamba, è stato scritto un interessante articolo su Panorama, intitolato “A volte (spesso) ritornano, in cui viene illustrato il curioso tema  dell’esperienza pre-morte o NDE (acronimo per l'espressione inglese: near death experience). 
Le NDE sono esperienze vissute e descritte da soggetti che, a causa di malattie terminali o eventi traumatici, hanno sperimentato fisicamente la condizione di “morte clinica”, a causa di coma o arresto cardiocircolatorio e/o encefalogramma piatto. Una volta riavutisi, questi stessi hanno raccontato di aver vissuto esperienze ultraterrene e/o extracorporee. La maggior parte delle testimonianze raccolte dagli studiosi del fenomeno come il cardiologo olandese Pim Van Lommel, o il medico e psicologo statunitense Raymond Moody, o ancora l’anestesista e docente universitario padovano Enrico Facco,  hanno caratteristiche comunivisione dall’alto della sala operatoria o del letto d’ospedale del proprio corpo “morto”,  viaggio in  un tunnel di luce e visione panoramica della vita (life review), sensazioni di pace e assenza di dolore, incapacità di stabilire il fluire del tempo, riluttanza a tornare in vita, disagio al momento del risveglio.

Anche Platone, senza saperlo, nel libro X di una delle sue principali opere, “La Repubblica”, potrebbe aver anticipato l’esistenza di questo fenomeno, nel racconto del famoso mito di Er, un soldato greco morto in battaglia, il quale si era “risvegliato” dopo diversi giorni e aveva raccontato cosa aveva visto nel suo viaggio verso la morte. 
Nel 1944, lo psichiatra svizzero C. G. Jung, nel suo libro autobiografico “Ricordi, sogni, riflessioni”, descrisse una sua personale esperienza pre-morte, provata a seguito di un infarto miocardico. Nulla di strano se si pensa che è oggi dimostrato che le NDE coinvolgano una quota che oscilla tra il 15 e il 18 per cento delle persone colpite da arresto cardiaco.
Al di là delle controversie scaturite dalle due opposte teorie interpretative - materialista e spiritualista - questo fenomeno fa emergere una fondamentale riflessione: perché relegare la morte nel mondo dell’inconoscibile e dell’ignoto, o ancora peggio definirla come il “nulla eterno”, il buio, l’oscurità, solo perché la scienza non è riuscita a trovare una via adatta per esplorarne le sue caratteristiche?
Oggi più che mai, forse in virtù delle sue sempre più evolute potenzialità, l’uomo necessita di una consapevolezza più profonda di che cosa sia la vita e quindi anche di che cosa sia la morte, di cosa significhi vivere, ma anche morire.
Basti ripensare alle parole di uno massimi filosofi della storia del pensiero come Seneca, il quale così scrisse: “Ascoltami: verso la morte sei spinto dal momento della nascita. Su questo e su pensieri del genere dobbiamo meditare, se vogliamo attendere serenamente quell'ultima ora che ci spaventa e ci rende inquiete tutte le altre”.

Socrate affermava che il vero saggio è colui che sa di non sapere; l'umiltà nella ricerca allora ci farà meravigliare sempre di quante cose non conosciamo e di quante strade esistano per arrivare (se mai arriveremo) alla verità e alla conoscenza.
Non avere i paraocchi nell’ambito della ricerca epistemologica significa quindi avere anche il coraggio di vagliare nuovo campi di ricerca - come quello della esperienza pre-morte - dei quali spesso si nega anche la stessa esistenza o che spesso si è soliti segregare nell’ambito del nulla o dell’inconoscibile, solo perché non sono direttamente verificabili e osservabili.

Elisa Cantone




mercoledì 2 maggio 2012

Riflessioni personali sul concetto di Nichilismo

Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo. 
( Johann Wolfgang von Goethe).

Il mondo non è senza Dio, Dio non è senza il mondo. 
(Schleiermacher).

Riverbera ancora, nella cultura contemporanea, l’eco di antichi lemmi di cui continuo, per quanto mi sforzi, a non comprenderne il significato profondo.
In particolare mi riferisco al concetto di nichilismo: chi è? Che cos’è?
Nei “Frammenti postumi” Nietzsche tenta di schiarirmi le idee con queste parole:
 Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al: perché?
Ma credere che “abbiamo nulla” e che “siamo nulla” non è forse una contraddizione?
Infatti, se accettiamo l’idea che i valori siano tramontati, come possiamo muoverci nel mondo, interpretarlo e interagire con esso? Non sono forse le idee e i valori i motori propulsivi del nostro corpo e dell’anima?

A spingerci nello studio e nella ricerca di un lavoro non sono i valori della vita, del denaro o del potere?
Se cerchiamo amici; soffriamo la solitudine; cerchiamo una donna o un uomo con cui invecchiare e se soffriamo quando veniamo lasciati o lasciamo; non cerchiamo e soffriamo per amore – nella sua concezione più ampia?
Se la tecnica e la tecnologia sono sempre più sofisticate, se abbiamo fede, OPS!!!, fiducia nella scienza e ad essa poniamo domande, non è forse perché abbiamo sostituito – permettete le ridicole generalizzazioni – il calcolo delle probabilità alla Provvidenza?
E infine, il “valore di scambio” non è a sua volta un “valore assoluto”?

Il culmine della follia non è forse pensare che l'essere è il nulla? E "nichilismo" non è forse, innanzitutto, pensare che l'essere è nulla?
( Emanuele Severino )

Credo che i valori di economia; di vita; bene e male; Dio e scienza siano presenti oggi come in altre epoche ma che si manifestino nella società contemporanea con modalità diverse. Magari sono semplicemente interpretate in altro modo… ma ci sono.
Il “nulla” non esiste, l’uomo è un animale metafisico, dio non muore ma si trasforma.

                                                                                               Antonio Rotundo