giovedì 23 febbraio 2012

La “mora” più diffusa in tutto il continente

Chi l’avrebbe mai detto che un frutto come la mora potesse raggiungere una popolarità così alta? Eppure BlackBerry ha rischiato di essere conosciuta come “cavallina” (Leapfrog), perchè scavalcava gli altri telefoni o “fragola” (Strawberry), per la forma dei tasti che ricordavano i semi di fragola, ma “Straw-” non piaceva come suono e così si passò dalla fragola alla mora (BlackBerry appunto).

BlackBerry è il marchio commerciale dei dispositivi portatili smartphones, cioè i cellulari “intelligenti” (capaci di abbinare le funzionalità di telefono cellulare a quelle di gestioni di dati personali) prodotti dalla società canadese RIM (Research In Motion), il cui fondatore e co-CEO è Mihalis “Mike” Lazaridis.

Uno dei primi modelli è l‘850, un cercapersone con alcune funzionalità aggiuntive di agenda e di messaggistica tramite la tastiera full QWERTY. Via via si passò rapidamente ai dispositivi muniti di chiamate vocali, dapprima tramite cuffietta auricolare, per poi arrivare a quelli con l’altoparlante integrato e lo schermo a colori. I dispositivi che troviamo oggi negli store hanno migliaia di funzioni, sono ultra veloci, eleganti ed appariscenti, e vengono scelti anche per il design oltre che per l’hardware e il software.

La caratteristica principale, quella che distingue BlackBerry dagli altri dispositivi, è la gestione delle email: le email vengono consegnate da appositi server sul palmare, attraverso un servizio di push email, in tempo reale, senza che il client debba avviare una nuova ricerca di messaggi sul server, in modo analogo ai famosi e comuni SMS dei telefoni cellulari.

Un’altra esclusiva di BlackBerry è il PIN (simile ad un numero di serie o ad un codice IMEI, da non confondere con il Codice PIN della scheda telefonica SIM) ossia un codice univoco che identifica ogni dispositivo e che consente di utilizzare il palmare in modo simile ad una chat, scambiando messaggi, foto, podcast, comandi vocali e link con altri palmari BlackBerry di cui si conosce l’identificativo PIN.

Tutte queste agevolazioni, hanno fatto sì che BlackBerry diventasse un Must per tanti imprenditori, manager, uomini di affari e giovani rampanti. Per tutti loro la tastiera da strumento virtuale sta diventando sempre più fisica, reale. I testi, sequenza di caratteri e lettere, prendono forma e materializzano gli interlocutori.

Come le idee di Platone e/o la sostanza di Aristotele che oltre alla valenza logica assumono una valenza ontologica: esse danno un'effettiva significatività, una realtà concreta ad un linguaggio astratto, informatico. Vista la grande concorrenza con iPhone e Android, RIM ha un futuro? Si, solo se riuscirà a mantenere la propria identità e a facilitare e velocizzare sempre più la comunicazione.


Giulio Guarini

venerdì 17 febbraio 2012

Filosofando con Harry Potter. Corpo a corpo con la morte

Grazie alle numerose pubblicazioni del filosofo francese Pierre Hadot, recentemente scomparso, l’idea della filosofia come esercizio spirituale è stata progressivamente recuperata e contrapposta a una pratica solo specialistica del procedere filosofico. L’idea che il filosofare possa e debba coinvolgere tutti, diventando “utile” anche nel quotidiano, si è così fatta strada e ha preso le direzioni più varie: dalla consulenza filosofica come pratica professionale, alla saggistica sul recupero della saggezza degli antichi, alla rivendicazione della filosofia come disciplina guida in un’epoca priva di orientamento. L’ultima frontiera di questa riattualizzazione della filosofia, altrimenti intesa come una disciplina sterile e antiquaria, è rappresentata dalla cosiddetta “pop-sophia” o filosofia pop che dir si voglia, che applica l’armamentario teorico e interpretativo della tradizioni ai fenomeni di maggior successo commerciale come le serie televisive più alla moda, i fumetti, i film tipicamente hollywoodiani (non quelli d’essay, apparentemente più adatti allo scopo) e le saghe fantasy tradotte in pellicola nell’ultimo decennio.

 Ora, mentre questo approccio non sembra scandalizzare più di tanto negli U.S.A. e in Francia (tanto per citare due paesi di indubbio rango filosofico), in Italia è diventato una sorta di “ignominia dell’accademia”, che sarebbe colpevole di scendere a patti con il basso, l’economico, il puro e semplice divertimento. Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un rimbalzo di accuse, repliche, controaccuse e ridicolizzazioni sui quotidiani di maggior esposizione: dal Corriere della Sera al Secolo XIX, dal Giornale ad Affari Italiani fino al Resto del Carlino, sono state messe alla berlina (in un botta e risposta che ha il sapore in realtà di un gioco di ruolo), da un lato, la voglia di riconoscimento di intellettuali annoiati e la loro maliziosa ingenuità nel pretendere che tutto abbia valore filosofico, dall’altro, la mancanza di elasticità teorica dei “conservatori”, foriera di un prossimo (o forse, postumo) rito funebre per la tanto amata filosofia.

 Il volume di Laura Anna Macor, studiosa dell’illuminismo tedesco di riconosciuta competenza nonostante la giovane età, dribbla con eleganza tutto questo labirinto di sofismi e dimostra direttamente sul campo in che senso la saga di Harry Potter possa aspirare a uno status più alto rispetto a quello sancito dalle solite etichette “prodotto per l’infanzia/per ragazzi”, “letteratura fantasy”, “moda del momento”, “fenomeno mediatico”. Il metodo è quello di un’interpretazione immanente al testo, che prende sul serio ogni carattere, ogni evento, ogni soluzione narrativa, chiedendosene il perché e valutandone di volta in volta l’efficacia. Nessuna citazione di nicchia, nessuna digressione colta, nessun confronto tra la Rowling e gli autori del canone, solo ed esclusivamente la parola ai sette romanzi. La strada scelta è difficile, perché dimostrare la filosoficità di un prodotto di mercato, per quanto del mercato culturale, è molto più facile se ci si appoggia a stampelle erudite. Questo procedimento, però, non può che lasciare il sospetto che l’interpretazione imbastita sia una sorta di divertimento per l’interprete, desideroso di trovare svago o, peggio, conferma dell’utilità del proprio fare professionale, quando in realtà le cose sono molto più semplici, e cioè non filosofiche. Per essere chiari: se ogni frase pronunciata dal protagonista di una serie televisiva viene accostata a sentenze di indiscussi filosofi della tradizione, il lettore (anche colto, qui non c’entra il background culturale dell’utente) non può scacciare l’impressione che il paragone sia possibile, sì, interessante, certo, ma in fin dei conti arbitrario e … non convincente.

La scelta di Laura Anna Macor, invece, si pone “a valle” di tutto questo, perché attraverso un’analisi serrata e a tratti implacabile dimostra l’intrinseca coerenza della saga. Senza sentirsi in dovere di giustificare il suo approccio in sede introduttiva, Macor ne dimostra l’efficacia pagina dopo pagina, in una sorta di spirale interpretativa che si avvicina progressivamente al nucleo della storia. Centro tematico è la morte, che diventa una sorta di alter ego per tutti i personaggi, impegnati (come tutti noi del resto) nell’inevitabile, doloroso e tremendo confronto con il congedo definitivo, proprio e degli altri. L’esperienza del lutto anticipato (la paura della morte dei propri cari) e vissuto (la morte dei propri cari) come anche la paura della propria morte dominano la struttura della vicenda in misura sorprendente, disegnando un’architettura dell’umano veramente raffinata. Macor si sofferma su temi (La Magia e la morte, Peggio della morte, Amore e morte) e su singoli personaggi (Piton, Voldemort, Silente e ovviamente Harry) e lascia emergere dal testo le pieghe di una riflessione, che può legittimamente essere definita una meditatio mortis in piena regola. Sembra quasi di assistere a una riattualizzazione della strategia del filosofare propria dei miti dell’antichità, dove Orfeo, Prometeo, Alcesti (per nominarne solo alcuni) non si soffermano teoricamente sullo statuto dell’umano, ma agendo ne mettono in luce potenzialità, limiti e illusioni. Sono irresistibili le similitudini tra la vicenda del secondo fratello (della fiaba di Beda il Bardo) e quella di Orfeo, tra la vicenda di Voldemort e quella del Prometeo incatenato di Eschilo che, però, a differenza di Voldemort, nel frammento del Liberato trasmesso nelle Tusculanae di Cicerone, invoca la morte come termine dei mali.

Non si può dire che il testo manchi di pregnanza, anzi. Sembra quasi di rivivere con Marco Aurelio e Lord Shaftesbury il senso ascetico (in senso letterale) del fare filosofia, dove la riflessione diventa una palestra interiore, un vero e proprio allenamento, una disciplina mai veramente acquisita e sempre in atto. Nel complesso quindi, un libro che rende straordinariamente interessante la saga della Rowling anche a chi, non essendo (ancora) fan di Harry Potter, lo è però di tutto ciò che affetta l’interiorità dell’uomo che, come purtroppo insegna l’esperienza, è dominata dalla mortalità. Un’interpretazione che merita veramente ampia attenzione, soprattutto in relazione al progetto culturale che sembra esservi sotteso.

Giuliano Pisani


martedì 14 febbraio 2012

Faust, le digital library e il rischio social

Un tempo si andava in libreria, entrandovi con atteggiamento riverente, prendendo posto in silenzio, vicino a una lampada Kennedy, immergendosi lentamente nei libri, in un’atmosfera di collettiva sacralità e rispetto, quasi chiericale, del luogo e del sapere che vi si preservava. L’avvento di internet e lo sviluppo delle digital library ha messo in discussione numerosi usi e costumi relativi al mondo del libro e all’universo bibliotecario.

Anche le biblioteche hanno dovuto affrontare la rivoluzione digitale, reinventandosi e imparando il linguaggio del marketing. Non più scrigni di preziose rarità bibliografiche o centro per riunioni quasi massoniche di circoli intellettuali. Non più circoli, ma punti di ritrovo, nodi della rete nazionale delle biblioteche (sbn), collegati ad archivi virtuali. Biblioteche pensate come piazze del sapere, Idea Store (Antonella Agnoli, 2010), integrate alle città, che spezzano il cerchio delle élite e della diffidenza dei profani. Ma al di là delle scommesse sul loro ruolo futuro, con il passare del tempo le biblioteche sono state sempre più sostituite dalle privatizzazione del sapere offerto dalle digital library: biblioteche virtuali consultabili a casa o dal proprio dispositivo mobile, a metà strada fra cataloghi elettronici digitali ad accesso pubblico (opac) e archivi digitali on-line.
A differenza di vecchie biblioteche e di polverosi archivi (incubo di studiosi allergici e sofferenti di meibomite), le digital library tendono sempre più ad integrarsi con il modello social del web 2.0, offrendo non solo opportunità di feedback e di social filtering o social bookmarking, ma anche servizi di e-commerce per la compravendita di volumi e di saggi.
Non è improbabile che, in un prossimo futuro, le digital library vengano sempre più integrate con i social network, divenendo dei veri e propri servizi trasversali. Tali servizi, infatti, potranno attingere alla ricca raccolta delle preferenze individuali di utenti, che dichiarano spontaneamente orientamenti privati, religiosi sessuali o politici, gusti e inclinazioni culturali; insomma, ogni sorta di indicazione relativa alla sfera privata. Se ne parla in questi giorni all’evento IfBookThen, conferenza internazionale sul futuro dell’editoria organizzata da BookRepublic e 4IT Group.

Si pensi, per esempio, ai servizi social per la condivisione dei commenti sui libri e letteratura, da siti come Anobi ad applicazioni per iPad come Readmill; oppure a siti come Small Demons, in cui vengono raccomandati libri a partire dal loro contenuto, in quella che viene definita una storyverse, ovvero un intreccio di esperienze culturali legate alla biografia di un personaggio o al suo mondo intellettuale e fantastico. Se per esempio su Small Demons effettuo una ricerca su Schopenhauer, il sito offrirà “inviti alla lettura” relativi a personaggi, opere, luoghi e pensatori legati all’autore del Mondo come volontà e rappresentazione. Nel nostro caso, in relazione ai personaggi, suggerirà la lettura delle opere di Nietzsche o di Thomas Mann o di Joris-Karl Huysmans, oppure i quadri di Matisse o De Chirico, tutti intellettuali fortemente influenzati dallo schopenhauerismo. Oppure il sito indicherà delle guide turistiche di Danzica, Weimar o Francoforte, città in cui il Nostro è vissuto; e ancora, suggerirà di ascoltare musica wagneriana o inviterà a leggere La cura Schopenhauer di Irvin D. Yalom.

Le digital library e le nuove applicazioni social promettono esperienze culturali multimediali, percorsi di narrazioni a bivi, intrecci esistenziali fra autore e lettore, vissuti multisensoriali con butterfly effect degni del racconto fantascientifico di Ray Bradbury, A Sound of Thunder. Ma questo sogno caleidoscopico non sarà gratuito. Per vivere altre vite negozieremo i dati della nostra sfera privata. Faust dovrà pagare ancora una volta pegno al diavolo: il sapere per la propria privacy.

Fabio Ciracì


venerdì 10 febbraio 2012

Auschwitz, o della colpa universale


Dell’olocausto si può parlare in mille modi diversi, rifacendosi ora alle sue più laceranti ed evidenti conseguenze ora ad analisi più sottili. La recente “Giornata della memoria”, alla quale va riconosciuta una meritoria ed indiscutibile funzione comunicativa, divulgativa e d’approfondimento, come accade ogni anno non sfugge purtroppo alle strumentalizzazioni o alle trattazioni talvolta banalizzanti. Può essere allora interessante interpellare una voce, una grande voce ebreo-tedesca che si leva dall’orizzonte del dibattito filosofico del Novecento, quella di Theodor W. Adorno (1903-1969), del quale si possono rileggere alcune riflessioni che, al di là dello spessore speculativo, intrecciano in modo peculiare temi apparentemente distanti: la metafisica, l’olocausto, l’alterità.

Il concetto di metafisica ha attraversato la storia del pensiero filosofico occidentale, «è ciò per cui in fondo esiste la filosofia». Per quanto la metafisica abbia avuto come suo oggetto tradizionale le cosiddette «cose ultime», in realtà è decisamente problematico definirne la natura e i caratteri. In un primo senso, la metafisica può essere ricondotta a quelle «strutture forti e portanti, in una certa misura invarianti, della grande tradizione filosofica occidentale». A ciò va però aggiunto che la metafisica e il pensiero metafisico rappresentano anche il tentativo di creare una connessione, una mediazione, tra il livello del diveniente e del corruttibile e il livello dell’incorruttibile e dell’invariante. Rispetto a questo tema, Adorno ha sostenuto che non si vede come il pensiero, che è di per sé condizionato, possa costituire l’incondizionato e possa trasformarvisi. Ed è proprio in relazione al problema del rapporto tra condizionato ed incondizionato, concettuale e aconcettuale, identico e non-identico che inizia quell’«esperienza metafisica» che assume i tratti di un’esperienza del pensiero ai (e oltre i) limiti di se stesso, ma anche come pensiero dell’altro da sé.
La metafisica e l’esperienza metafisica rappresenterebbero tanto il tentativo (affermativo) di “salvare” il mondo quanto il tentativo (negativo) di pensare un oltre delle cose che si presenti come un non esserci del senso del mondo, ma che, lungi dal rappresentare un esito nichilistico e definitivo, apra, proprio in virtù di una mancanza, alla possibilità della speranza. L’esperienza metafisica assume allora i tratti di una possibile «esperienza della cosa», di difficile accesso e che tende verso un nucleo non concettuale del finito, vale a dire di quell’elemento che si sottrae alla sua assunzione nel concetto, dato che se così fosse verrebbe restaurato un primato: il finito diventerebbe assoluto, identico, universale.
Adorno precisa, però, che alla sua trattazione dell’esperienza metafisica è necessario approcciarsi in modo dialettico, vale a dire non assumendo l’immutabile come “vero” e l’effimero come “inferiore” e “spregevole”. Questa è una precisazione di non poco conto, tanto più che ad essa è connessa la tesi secondo cui le esperienze che l’uomo ha vissuto nel Novecento sono talmente peculiari, sono così profondamente drammatiche da non consentire più di mantenere invariati il senso ed il significato tanto della metafisica quanto dell’esperienza metafisica. Come segno di questa impossibilità di «sollecitare la positività di un senso nell’essere» (potremmo anche dire di un carattere affermativo e positivo della metafisica e della dialettica); come segno di ciò, si diceva, Adorno assume Auschwitz, vero e proprio simbolo universale della messa in scacco dell’idea di un «senso di ciò che è».

Adorno ha dedicato pagine molto intense e molto note alla tragedia di Auschwitz e alle dense riflessioni su di essa, segno evidente e tangibile della ferita ancora sanguinante che ha straziato i pensieri del filosofo ebreo-tedesco di Francoforte fino alla sua morte. Adorno pensa all’irruzione di Auschwitz nella storia come ad una svolta radicale; il mondo dopo Auschwitz non è più il mondo precedente ad Auschwitz, la cultura e l’arte sono “spazzatura”, sono un atto di barbarie, finanche la poesia non è più possibile. È questa la scioccante quanto nota denuncia di Adorno circa l’impossibilità di scrivere ancora poesie dopo Auschwitz, celebrità dovuta tanto all’icasticità e all’apparente paradossalità che le è propria, tanto alla conseguente lunga discussione che ha innescato, sia tra filosofi che tra letterati. L’affermazione adorniana non va però presa alla lettera. In una delle lezioni sulla metafisica Adorno infatti dichiarerà: «ammetterei volentieri, quasi come ho detto, che dopo Auschwitz non si possa più scrivere alcuna poesia – frase con cui ho voluto indicare il vuoto della cultura risorta –, d’altra parte, si debbono però ancora scrivere poesie, nel senso della frase dell’Estetica di Hegel secondo cui, finché tra gli uomini c’è una coscienza del dolore, ci deve essere appunto anche l’arte come forma oggettiva di questa coscienza».
Per Adorno, l’esperienza metafisica, il ruolo della filosofia o la degenerazione nella barbarie costituiscono tasselli di uno stesso mosaico. Nella quattordicesima lezione sulla metafisica Adorno tematizza l’assoluta impossibilità di una costruzione e affermazione di senso che non sia un attenuare ideologico «l’indicibile e l’irreparabile e l’irrimediabile con il gesto: bè, in qualche modo, in un misterioso ordine dell’essere, avrà pure avuto un qualche senso».

Adorno rifiuta con forza, quasi con rabbia, affermazioni di questa natura; esse hanno il sapore della beffa, dell’ulteriore offesa, dello scherno rispetto alle vittime e alle loro sofferenze. Parlare di metafisica senza tenere presente gli innumerevoli “Auschwitz” del mondo contemporaneo, senza tenere conto che dietro la libertà formale dell’uomo si nasconde la sua “nullità per il tutto” (dal momento che vige la logica della “sostituibilità”: «ogni uomo [è] sostituibile con ogni altro uomo e in fondo perciò è sostituibile senz’altro»); parlare di metafisica sottraendosi a queste considerazioni sarebbe, per Adorno, un parlare a vuoto. Nel mondo dopo Auschwitz non è possibile sottrarsi all’idea della colpa, di una colpa che si riproduce incessantemente in ogni uomo, all’idea che la nostra esistenza attuale, la nostra presenza, sono profondamente intrecciate con il dolore, la sofferenza e la morte di altri uomini.
In questa dialettica tra consapevolezza ed esistenza, colpa ed espiazione, la filosofia gioca un ruolo decisivo. Essa, che in virtù della sua distanza dall’esistente riesce a resistere alla parcellizzazione e alla reificazione, rappresenta «l’unica possibilità di riparare», nonostante la difficoltà – prosegue Adorno – di liberarsi dalla sensazione che proprio quella distanza se da una parte garantisce ancora la possibilità di sfuggire all’apparenza e all’illusione prodotte dalla coscienza reificata, dall’altra parte allontana la filosofia dalla “cosa” e, quindi, dalla verità. Ritorna, in un certo senso, quella necessità, quel dovere ineliminabile del filosofo, più volte richiamato, di aderire alla realtà, di accogliere ciò che essa produce e farsene carico.
La profondità della filosofia non deve offrire illusoriamente un senso ma, pur elevandosi al di sopra di ciò che semplicemente è, non può esimersi dall’inglobare ed accogliere «il common sense, la banale ragione umana». Tenere presente il “senso comune” costituisce la necessaria compromissione della filosofia con il mondo della vita; lo stesso pensiero metafisico, contrariamente a quanto tradizionalmente aveva fatto, scivola nell’esistenza materiale. Ad esso, ora, si dovrà richiede di non degenerare in chiacchiere come la “nuova sicurezza” e sciocchezze simili; di non essere apologetico e di non rinviare a un qualcosa come un possesso imperituro – ma di pensare contro se stesso; e ciò significa che si deve misurare con l’estremo, con l’assolutamente impensabile, per avere in genere ancora un diritto in quanto pensiero.
La filosofia non deve concedersi l’ennesima fuga dalla “carogna”, dalla “puzza” e dalla “putrefazione” bensì deve porsi in relazione negativa, drastica finanche sofferta con l’estremo reale. La filosofia deve riuscire a mantenere una certa distanza dalla “realtà miserrima”, una distanza che possa garantirgli la profondità ma, al momento opportuno, deve colmare quella distanza e stazionare nella dimensione del semplicemente esistente. Soltanto così essa perderà quel carattere eufemistico, falsamente ed inutilmente consolatorio e, perciò, ideologico che, per Adorno, è andata assumendo (o meglio, mantenendo). Soltanto così la filosofia potrà aiutare a «prendere coscienza del momento di falsità proprio là dove questa falsità si fraintende come verità, dove lo spirito maligno si fraintende come spirito».

Nel mondo che ha potuto produrre Auschwitz la metafisica e le sue “grandi parole” hanno perso ogni possibile legame con l’esperienza, rispetto alla quale sono divenute del tutto incommensurabili. «La metafisica è paralizzata, perché quel che accade ha spezzato al pensiero metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza»; Auschwitz rappresenta il fallimento della cultura, è l’emblema della caduta nella barbarie, è il simbolo di quell’indifferenza nei confronti della vita di ogni uomo verso cui la storia si muove; Auschwitz rappresenta la logica fatale dell’identità che ha annientato e soffocato ciò che è altro da essa, la non-identità.
Giacomo Fronzi


mercoledì 8 febbraio 2012

In memoria di Anacleto

Purtroppo Anacleto non è riuscito a vedere stampato il suo libro La batracomachia di Bayreuth. Nietzscheani contro Wagneriani (Il Prato, Padova 2012). Il 4 febbraio del 2012 ci ha improvvisamente abbandonati. Con lui abbiamo perso un intellettuale di prim’ordine, animato da autentico spirito critico e da una passione rischiaratrice degna di Voltaire: i suoi libri su Nietzsche, Schopenhauer e Bruno – per citare solo alcuni tra i più noti – resteranno sempre a testimoniare della sua libertà di ricerca e della sua profonda verve filosofica. Essi, del resto, costituiscono già altrettante pietre miliari della storia delle interpretazioni. Conoscevo Anacleto da non molti anni, ma era subito nata tra noi una splendida amicizia, basata su reciproca stima intellettuale e su un affetto autentico, che portava ciascuno di noi a vedere nell’altro un amico vero, di cui potersi fidare e – come sempre capita con le vere amicizie – con cui trascorrere momenti sereni, parlando liberamente di tutto. Con lui ho perso un amico. Un amico vero, di quelli che, quando vengono a mancare, senti che anche una parte della tua vita si spegne. Anacleto teneva moltissimo all’uscita di questo suo libro, che in qualche misura costituisce il suo testamento filosofico. Ne aveva riletto molte volte, con cura, le bozze ed era sempre pronto ad apportare modifiche per perfezionarlo. Mi parlava già, con entusiasmo, delle presentazioni che avrebbe voluto farne con me a Torino e in Liguria. Il libro sarebbe dovuto uscire di lì a pochi giorni. Fata libelli habent sua, si dice: il singolare destino di questo libro è di vedere la luce in assenza del suo autore, che l’ha accompagnato fino alla fine, passo dopo passo, quasi a volerci consegnare l’opera perfetta, il suo testamento spirituale. Leggendo le pagine di questo testo profondo e caustico, divertito e divertente ma, insieme, pungente e innovatore, sembra di poter scorgere il profilo di Anacleto, con il suo sguardo penetrante e fieramente critico, con quel suo sorriso irresistibile di cui era solito far dono agli amici.
 Diego Fusaro

 *Per gentile concessione della casa editrice “Il Prato” abbiamo qui pubblicato in anteprima il testo di Diego Fusaro che aprirà il summenzionato volume di Anacleto Verrecchia, la cui uscita è prevista entro la fine del mese di marzo.

sabato 4 febbraio 2012

Daniele Grassi, “poeta europeo di lingua italiana”


In un angolo remoto prossimo ai boschi di un noto comune residenziale della lontana periferia di Bruxelles, Tervuren, vive da molti anni, in una casa di bella architettura, fatta costruire "su misura", un poeta italiano di alto rango, Daniele Grassi.

Nato nel 1925 a Morra De Sanctis (Avellino), il paese appunto del grande De Sanctis, a cui fa pienamente onore, Grassi, già funzionario del Consiglio dei Ministri dell'Unione Europea, ha accumulato, soprattutto negli anni della pensione, un'opera poetica imponente: finora 15 volumi (stampati a proprie spese), più uno in formazione, senza contare due volumi di autobiografia già pronti. E non si tratta dei volumetti smilzi di oggi, con le pagine in cui il bianco prevale di gran lunga sul nero: sono volumi spessi, densi e intensi. Nessun poeta, come Daniele Grassi, ha fatto un'esplorazione più larga e profonda, e tuttavia priva di "mostruosità", dell'erotismo, cioè di una forza che muove il mondo, anche se egli non si è limitato a questo tema e la sua poesia spazia in molti altri campi. Ha fra l'altro accumulato una notevole collezione d'arte, soprattutto di arte negra. Grassi, che ha una cultura, uno stile e un ideale in tutto e per tutto classici, si ricollega fra gli altri ai poeti erotici latini, ma è più di questi concreto, libero e spregiudicato, per quanto sia difficile dirlo.

La sua poesia erotica è, anche rispetto a tali grandi poeti, nuova e originale, più elementare, veramente moderna. Quello che ha in meno di nobiltà, se è lecito dire così, lo ha in più di profondità e terrestrità. Ne risulta dunque una materia a volte fatalmente pesante, che però è riscattata e nobilitata da una lingua moderna, viva e classica insieme. Per me una lingua dantesca.

Sossio Giametta



TROPICANDO

Coricata sul dorso or luna giace
qui a corni larghi. E tu slargata incanti
da lontananze. Rotola l’oceano
e prossimo e lontano la tua immagine
mi reca che bianchissima su nera
sabbia incede. Se tutto si accavalla
-onde in arrivo ed onde di ritorno-
sei tu in un’altra, giusta altezza e piene
cosce in sodo bacino altalenante?
Mi sorridi? Non so. Ad altro pensi?
Finta e sincera sulla macchia  è ritta
or la tua luna e questa mia, sincera
e finta, stesa sui palmizi canta.
Qui gli dei e le dee sono dovunque.


SMANIANDO

Nel padiglione aperto in letto enorme
dorme o sobbalza tutta la famiglia
che all’alba cotto il riso porta al tempio
domestico con fiori, frutti e incenso.
Quale una santa nella sua cappella
sotto una zanzariera a baldacchino
rapita qui staresti e persi i sensi.


ILU’ E NANA’

A giudicar dai galli
qui albeggia tutto il giorno.
Se vagolo poi intorno
a contemplare Ilù
tristissima, sei tu
che accesospento aggalli
sorriso imperscrutabile
dal labbro filettato
e dal velluto liquido
negli occhi impelagato.
Sarebbe incoraggiata
perfetta Maddalena
Ilù e inginocchiata
mi ungerebbe, ripiena
di preveniente grazia,
mentre Marta-Nanà
più versatile strazia,
qua scomparendo e là
riapparendo serena
luna di lava nera.


LA SPECIALITA’

Di quella pelle ed ossa pregna cagna
essere sembra la specialità
prendere deretana le distanze,
poi la mano annusarmi accelerando
e quindi velocissima sfrecciare,
seguendo a parallelo schiume di onde,
e al colmo della corsa in capitomboli
ribaltarsi. Avvistato in lontananza
poi cagnaccio, spedita a coda ritta
e fregna bene in vista attacca briga,
il pigraccio annusando, cui la voglia
a testacoda circuita circuendo
bene attizza, solo al pene mirando,
ferina castratrice se per sdegno
non so di scorsi torti oppure ardente
cacciatrice di ritrosetti falli.
E sei tu manierosa in altre forme
che ora al mattino sopravvieni e il rombo
cavallonando vinci dell’oceano



KADEK A WAKA LOUKA

In luce di crepuscolo o dilucolo
a mezzodì ti stringi i panni addosso
e come fossi abbandonato in verde
bottiglia fluttui in sonnacchiosi tempi
immemore seppure si disegnano
chiare aste di bambù che il cielo reggono
assente. Levigata a specchio circola,
però, Kadek e vellutato emette
sorriso quando civettuola in curve
e controcurve balineggia dotta.
Come a terrazze irrompe in sottobosco
or grazia che protesa ti promette
e schiva si ritira e circonflette.
L’hanno arata per secoli a rilento
le bufale pazienti, le hanno smosso
il fondo piedi e stinchi giammai stanchi
e inseminata mani per trapianti
sì che fiorisca e spighi nel contempo
verde e dorata sui minuti campi.
Per rinnovarsi serpe in romitorio
Kadek è qui salita o sol per morderti
saputissima al cuore solitario?
Non chieder troppo che atteggiando aspetti
lei: anche il limo il cielo qui riflette.


MI ABBISOGNA

L’esotico mi turba, mi spaventa
l’estraneo. Non di qui l’estremo viaggio
può cominciare. Consolato sguardo
dentro nota cornice mi abbisogna..


RICORDO DA NUSA DUA

Acre ancora di oceano
quel corallo a pentagoni
sa e verdicchio una stella
poliraggia dal centro
di ogni alveolo. Innalza
anche ardite falesie
da uno scentrato centro
che reggon la mirabile
famiglia in superficie.
Son granelli di sabbia
a capocchia di spillo
e che qua e là arricchiscono
la rete geometrica,
oppure in nuce altri esseri
qui annidati e per sfizio
loro oppur necessari?
Frammentato in ricordi
saprai mai concentrarti
in un Tutto magnifico
che in geometria variabile
è costante e significa?
.

RAINFOREST

Fittissimi i bambù, rara la gente
e i quasi cavernicoli picozzano
rettangoli tufacei entro quei baratri
nebbiosi. Scorre nera la corrente
tra massi neri e nere lavandaie
sbattono panni neri. Sola accende
in tanta neritudine la carne
soda una madre giovane, mammelle
manipolando, i vaccini capezzoli
offerti ad un dio pluvio. Se la guardo,
mi guarda non ritrosa, anzi contenta
del desiderio mio che più la scopre
e lei quasi mi asseconda, il sarong
arieggiando e mostrando un sol momento
carnoso il bassoventre. Poi canefora
largamente ritmando scale monta.


SACERDOTESSA SCALZA

Con altare su parete di fondo,
aperto su tre lati era il capanno.
Al mattino sacerdotessa scalza,
nudi i seni, ma protetta la vulva
da sarong, discendeva, i fiori alle onde
per offrire affinché fosse clemente
il Maligno del mare se l’incenso
respirava e il profumo del suo grembo.


OGNI MATTINA

Ed ogni mattina smuove erpicando
la stessa sabbia che il mare la notte
ha invaso di detriti e, se fra nuvole
ogni mattina marosi-cavalli
spronando il sole appare, lei una chiostra
di bianchissimi denti apre e sorride
al mio passaggio. Si chiama? ... Marina
ninfa, meniali faccende sbrigando,
un dio amoroso aspetta che da spoglie
mentite sappia estrar la sua regina.


ANTENATI

Pelle ed ossa qui attendono pazienti
rugosissimi vecchi sulle soglie
e tu non sai se ancora lo spettacolo
percepiscan del mondo. Rannicchiati
in dorata urna poi non se ne vanno
no, certamente no: solo si assentano.


DISUGUALE UGUALMENTE

Quelle dei Caraibi l’hanno stretta,
rosea e lunga, quelle
di Bali l’hanno larga,
giallina e corta, voglio di conchiglie
dir l’apertura, di mulatte ardenti
e non di balinesi sorridenti
la vulva. Son diversi anche gli oceani
e i tornado diversi dai monsoni
con gli stessi, però, sconvolgimenti.
E tu? Di temperato clima figlia
qualcosa d’intermedio
avrai e che tortuosa e pertinente,
disuguale ugualmente mi scompiglia.


LA COMMEDIA

Nell’afa del desiderio
sottaciuta in questa e quella
la flabella la memoria
come fosse lor sorella
pur nella diversa storia.
Ed allora semiserio
non dò peso più di tanto
ai rifiuti od agli assensi ;
lancio l’amo, attendo un’onda
più invadente che i miei sensi
imperiosa illuda e a schianto
si disperda sulla sponda.


SEPPURE

Seppure di orchidee gemmata è l’aria,
ghecoccia il geco, ruculia la tortora.



LEGATA TENUE

Guarda come sull’acqua azzurra naviga
capricciosa in frammento a barca palma
e vorrebbe Nanà con scopa ad erpice
catturarla. Ma vagabondo un refolo
la gira allontanando, la rigira,
la pencola appressandola, l’affonda
e la riaggalla. Altissimi ora volano
aquiloni e supporre puoi soltanto
chi li regga. Nanà la fuggitiva
aggancerà? Volubile e lontana
ti aggancerò? Qui a tonfi e tonfi tonfa
ora noci di cocco con serpetta
coglitore acrobatico, di scimmia
piedi aggiogati al tronco, mani libere.
Chi serra chi? Chi sfugge a chi? Tu dimmelo,
legata tenue, non a filo doppio.


AGNIZIONI

Per tutti i diavoli e per Belzebù,
da foto dell’ottocentosettanta
solamente a posteriori ho saputo,
dai peli delle ascelle pur avendolo
dedotto, quanto di Nanà e d’Ilù
bene in carne fosse, scuro e velluto
il bassoventre e sodo, ma minuto
il seno della prima e da una foto,
poi, del novecentododici quanto
della seconda il pendulo ora seno
sia stato da ragazza ritto e pieno
della seconda da ragazza il seno.
Delle donne di Bali or come prima
coequilibrate sono spalle e natiche,
non troppo grandi queste o strette quelle.
Ampie solette i piedi nudi, gambe
forti e a coppa di mano le mammelle,
quindi armoniose e sorridenti incedono.
Fanno sesso spontaneo, se vuoi, casto,
con offerte agli dei e amore agli uomini.
Altro che le tue ambagi e le tue smorfie
e, se osassi tu fare spogliarello,
che malagrazia e zizzarelle sgonfie!




LA TUA RAGION D’ESSERE

Avessi sguardo cupido e vagante,
potresti anche risorgere a un convegno
d’ombre. Represso, eppur significante  ,
però, l’hai e perfino limpidezza
di cielo sgombro e ricco di riflessi
presenta di sfuggita. Allor che dire
potresti accanto a nude congressiste,
di te più caste o libertine, senza
remore e avverse ad ogni infingimento?
Maestra ognuna del proprio strumento,
chi dolcissima canta e svaria Lieder;
chi strombetta scomposta; chi si sgola
trillando primadonna da decenni;
chi immusonita, sempre richiedente
risposte inadeguate a sue domande,
or ombra vuole regolare i conti;
altre anonime cantano stornelli,
di cui frammenti di motivi colgo;
di un’altra disvisata il tambureggio
insiste percuziente e affanna i timpani.
Strano congresso, in cui a disagio resti
come chi non si trova al posto giusto,
di chiusure e rifiuti sol maestra.
Senonché la corazza che ti veste
incita a dismagliarti anche a un convegno
d’ombre. Ed è questa la tua ragion d’essere:
a pezzo a pezzo persa la modestia,
immodesta restare stereotipica.
Testa in giù, mulinelli or gambe all’aria,
rapisci tutto in te, tutto distruggi,
di quel tifone indifferente al centro
buio sesso di donna benpensante.
Chi fosti o sei? Vallo a capir! Compendio
di tutte quante o inconscio personaggio
in cui ho proiettato, flagellandomi
e dilettato per finzioni multiple,
un alter ego in femminine forme?



mercoledì 1 febbraio 2012

“Miscela” di saggezza. La filosofia targata Quarta Caffè


“Mi emoziona che il suo nome venga letto su un cartello, che venga indicato a chi cerca la strada, a chi si dà un appuntamento. Mi piace che questo avvenga per tutto quello che lui era e che ha fatto. Mio padre ha dedicato tutta la sua vita al lavoro e al territorio, con passione, con entusiasmo, con amore”.

È così che scrive l'imprenditore Antonio Quarta (fresco di riconferma alla carica di Presidente dell’Associazione Italiana Torrefattori) in una commovente e significativa lettera indirizzata a suo padre Gaetano, per tutti i leccesi “Don Nino”, compianto fondatore della “Quarta Caffè S.p.A.”, l’azienda produttrice del caffè più amato dai salentini.

La lettera apre il libro “Lecce la quarta porta” (Congedo Editore), edito il 18 dicembre 2011 in tiratura limitata in occasione dell’intitolazione al “Cavaliere del Lavoro Gaetano Quarta” della piazzetta antistante Porta Rudiae, una delle principali porte della città di Lecce.

La lettera di apertura del libro non è solo un messaggio di profonda gratitudine e sincera ammirazione di un figlio verso suo padre, ma anche un modo per raccontarne la vita, per ricordare un uomo che ha sempre avuto il coraggio di varcare una nuova soglia, col sorriso sulle labbra; un uomo che ha sfidato e battuto la globalizzazione puntando sulla ricerca, sulla qualità, sull’innovazione; un uomo capace di trasformare una piccola torrefazione artigianale di provincia con bar di degustazione in una delle prime 10 aziende di torrefazione in Italia, dove il business del caffè esprime un giro d’affari orami prossimo ai 3 miliardi di euro, con oltre 700 produttori e circa 7.000 addetti (fonte: Coffitalia 2011-2012).

È qui che si svela implicitamente la filosofia Quarta, fondata sulla convinzione che dietro ad una porta ci sia sempre un mondo da scoprire, che  l'apertura a nuovi orizzonti conoscitivi sia elemento fondamentale per la crescita personale e imprenditoriale.

Varcare una nuova soglia, con coraggio ma anche con prudenza e  con la dovuta curiosità intellettuale, significa allora predisporre la mente a recepire dei cambiamenti. È questo un messaggio importante per noi figli dell'era della tecnicizzazione che, come ricorda Theodor Adorno, ci ha sottoposto alla legge della pura funzionalità, riducendo tutto all'istante dell'azione.

L'odierna società ha eliminato dai gesti ogni esitazione, ogni garbo ("le porte delle auto e dei frigoriferi vanno sbattute con forza, altre hanno la tendenza a scattare da sole"). È così che oggi si disimpara non solo a chiudere con cautela una porta, ma soprattutto a custodire l'interno che essa accoglie, inducendo chi entra alla villania di non guardare mai dietro di sé.

Sono questi stessi passaggi tra una porta e l'altra a determinare dei cambiamenti fondamentali nella vita, i quali spesso, come ha sottolineato Antonio Quarta lo scorso 1 dicembre durante una speciale lezione di filosofia d’impresa agli studenti di filosofia dell’Università del Salento, sono frutto di un inspiegabile intreccio di eventi apparentemente sconnessi tra loro ma fortemente significativi (in altre parole successi "non a caso").

Una tesi che sembra riportare al concetto di "sincronicità", approfondito da Carl Gustav Jung, padre della psicologia analitica. Essa indica il principio che regola i “nessi acausali”, ossia la coincidenza nel tempo di due o più accadimenti causalmente non correlati che hanno lo stesso o simile significato. Sarebbero proprio queste particolari coincidenze che alle volte,  intrecciandosi, sono in grado di determinare parte delle nostre vite. La sincronicità presuppone perciò una logica “a priori”, una sorta di accettazione dell’idea spirituale che esista un “senso”, un percorso energetico universale a cui noi uomini siamo sottoposti, e che ci vede partecipi di un assemblaggio di fenomeni, manifesti in frequenze di vibrazioni apparentemente impercettibili ma fortemente incisive nel profilo di ognuna delle nostre vite.

Una intitolazione importante, allora, quella a Gaetano Quarta, in corrispondenza di un'emblematica Porta per i leccesi, che da oggi ricorderà un uomo che ha sempre pensato che una porta sia sempre un diaframma fra due mondi, un'apertura che immette in una situazione nuova e imprevedibile; ma anche la filosofia di una famiglia che ha sempre concepito il caffè come una sorta di "esercizio filosofico", in cui i pensieri si stemperano per un istante, nella frenesia delle nostre giornate.

Elisa Cantone