giovedì 22 marzo 2012

L’incubo di Cartesio


Egmond op de Hoef, presso Alkmaar. Maggio del 1643, ore 20.33. L’orologio aveva da poco superato le 20.30 e Descartes, come d’abitudine, sedeva sulla sua amata sedia, sempre rigorosamente vicino al camino, con indosso la sua giacca da camera preferita, rossa con dei lavori sul dorato. Questa volta a fargli compagnia non sono né la sua cara penna, né i suoi preziosi libri, bensì delle preoccupazioni. Tra le sue mani vi erano dei fogli al cui margine superiore vi era stampato il titolo: “Philosophia Cartesiana” ma, ironia della sorte, questi fogli non erano stati scritti da lui:
D. “Dannato Voetius! Me l’ha combinata grossa questa volta. Se tutto il tuo zelo nel calunniare lo utilizzassi per le tue care anime, a quest’ora staremmo tutti in Paradiso!”.
Quelli che ha tra le mani il filosofo sono alcuni fogli dello scritto di Gijsbert Voetius e Martin Schoock dal titolo “Admiranda Methodus, che aveva come obiettivo quello di condannare la filosofia cartesiana, ritenuta sovversiva. Descartes era adirato nel leggere le innumerevoli ingiurie contenute in quelle poche righe, e continuava a domandarsi il perché di tante accuse. Credeva, ingenuamente, che l’ira e l’invidia del teologo Voetius si fossero placate dopo gli avvenimenti di Utrecht. Ad ogni modo, mentre i suoi battiti del cuore aumentavano in modo proporzionale alla velocità con la quale leggeva quelle accuse, ad un certo punto il tempo ed il suo cuore sembrarono fermarsi nel preciso istante in cui i suoi occhi lessero quello che non avrebbero mai voluto. Le sue mani sudate, ormai, avevano sgualcito quei fogli ed una morsa allo stomaco gli impediva quasi di respirare; insomma Descartes era in procinto di avere quello che gli psicologi clinici, oggi, chiamerebbero un vero e proprio attacco di panico. A provocare questa reazioni fu l’accostamento, nello scritto, del nome del filosofo francese al nome di un altro filosofo. Uno spirito libero e libertino, un uomo di corte, abile paroliere e stratega del pensiero, dallo spiccato umorismo intellettuale, caratterizzato dalla costante incredulità in materia di religione, dalla sua indole stravagante, dalla  cultura poliedrica; un uomo che attirò l’attenzione della corte parigina del XVII secolo, per farla breve un bello e dannato, un salentino doc: Giulio Cesare Vanini.
Tra le cose che fecero infuriare Descartes vi era proprio l’accostamento del metodo cartesiano a quello vaniniano:
D. “Ma come si fa a paragonare la mia filosofia a quella di uno sciocco ateo come Vanini, se le mie prove per dimostrare l’esistenza di Dio sono le migliori che siano mai state proposte? E come è possibile paragonarmi a lui solo perché entrambi abbiamo scelto di allontanarci dalla filosofia tradizionale? Io non ho nulla in comune con Vanini e, soprattutto, lui non ha nulla in comune con me!”
Preso dalla collera, il filosofo si alzò dalla sedia, si versò un bicchier d’acqua che sorseggiò affacciandosi alla finestra della sua camera, ma una grassa risata interruppe la sua meditazione spaventandolo:
V. “Beddhru miu! Ma ce sta passi?!”
Descartes, colto da spavento, fece cadere il bicchiere dalle mani, facendolo frantumare sulla moquet. La sua bocca non riusciva a proferire parola nel vedere un uomo piuttosto giovane e di bell’aspetto, con capelli neri e mossi lunghi, un baffetto indisponente ed un naso importante, che con aria divertita sedeva allegramente tra le fiamme del camino.
V. “Renato! Ce t’ha mpauratu? Nu me sta canusci?! Settate! Nu be ca te sta bene nu colpu?”
Descartes tra l’incredulità e la paura riuscì a balbettare una prima timida domanda a quello spettro:
D. “Ma sogno o son desto? Chi sei tu? Cosa vuoi da me e in quale lingua ti rivolgi a me?”
V. “Ohimmè stranu ca nu me sta capisci! Te faci tantu spiertu cu lu latinu! Cu lu salentinu ddhrai stamu! Comunque… possibile che tu non sappia chi sono? Osservami bene, non aver paura!”
Descartes si avvicinò intimidito e improvvisamente piombò come un peso morto sulla sedia quando si rese conto che lo spettro non aveva lingua.
D. “Ma sei Vanini! Ma come fai a parlare senza lingua e soprattutto cosa vuoi da me?”
V. “Sono venuto a prenderti, caro collega! Con tutte le cose che hai scritto, le accuse che ti hanno rivolto, la tua fine non solo è vicina, ma sarà identica alla mia!”
D. “Giovane insolente! La mia filosofia non ha nulla in comune con la tua. Tu sei un ateo, un bestemmiatore di Dio, un mentitore! La mia filosofia, invece, dimostra delle verità prima sconosciute e non fa altro che elevare lo spirito più vicino a Dio!”
V. “E allora che mi dici delle accuse del Teologo?”
D. “Tutta invidia! Sono solo congiure contro la verità della mia filosofia. Si sa, gli innovatori hanno sempre fatto paura, ed io dimostrerò la falsità di queste accuse!”
V. “E come? Spiegalo a me! Dicono che il cogito conduca allo scetticismo e che quest’ultimo, come sostiene il tuo adorato Teologo, sia l’anticamera dell’ateismo… ergo…”
D. “Taci, Maledictus! Tu non sei degno di comprendere il mio cogito. Esso non vuole condurre né allo scetticismo né all’ateismo, bensì ha l’obiettivo di trovare un punto archimedeo su cui fondare l’intera conoscenza!”
V. “Vallo a spiegare al caro Gisberto! Ormai faranno di tutto per condannarti! Ma ora, caro Renato, siamo tra colleghi… a me puoi dirlo! Ma davvero sotto la maschera non c’è nulla? Confessa! Io, a differenza tua, non ho mai avuto timore di osare, mi son preso le responsabilità di quello che ho detto e fatto, tu invece manchi di coraggio, di audacia!”
D. “Io non sono un ateo, apostolo di Satana! Lo dimostrerò! Le mie prove dell’esistenza di Dio sono le migliori, anzi, non fanno altro che fare apprezzare ancor di più l’esistenza del Sommo! Io sono un umile servitore della verità!”
V. “Ma cittu! A mie nu ma faci fessa! Tutte le obiezioni che hanno suscitato le tue meditazioni fanno ben comprendere che la tua filosofia è tutt’altro che tranquilla, e si sa, i rivoluzionari non sono tanto amati oggigiorno!”
Con queste ultime parole Vanini uscì dal fuoco e prese la mano di Descartes per trascinarlo nel fuoco.
V. “Ormai è tutto compiuto, ti prendo prima io, prima che lo facciano loro!”
D. “Non mi avrai mai, Aquila degli atei, lasciami! Ma dimmi, ma come fai a parlare senza lingua?”
V. “Come insegnò il buon Socrate, uccidendo un uomo non si uccide insieme a lui l’idea che ha creato e portato in atto!”
Tra le sue urla e le risate di Vanini, di soprassalto il filosofo francese aprì gli occhi sentendosi un bruciore alla mano destra. Aprì gli occhi e la lancetta segnava le 6.30, il fuoco era ormai quasi spento. Una voce lo fece sobbalzare, era la domestica.
Dm. “Signore, ha dormito troppo vicino al fuoco! Stanotte si è agitato di continuo!”
Descartes senza dire una parola si accorse di avere una piccola bruciatura alla mano e immediatamente sedette alla sua scrivania, pensando che era tutto molto chiaro.
D. “Devo difendermi! Ora scrivo una lettera al caro Teologo prima che sia troppo tardi! Vanini, non mi avrai mai!”
L’amore per la verità non annienterà mai nessuna rivoluzione, sia che ci taglino la lingua o ci brucino una mano… il pensiero non sarà mai né bruciato né annientato.

Irene D’Angelo e Rita Cardea


martedì 13 marzo 2012

Si (re)introduca Vanini nell’Abbagnano-Fornero. Lettera aperta

Quando si trovò a dover stilare la lista dei filosofi del Rinascimento da citare nella sua celebre Storia della filosofia, Nicola Abbagnano non esitò a inserire in quella speciale lista, accanto ai vari Bruno, Telesio, Ficino, Campanella ecc., anche Giulio Cesare Vanini (Taurisano 1585 – Tolosa 1619). Il salentino Giulio Cesare Vanini.

Lo collocò, precisamente, nel capitolo Rinascimento e aristotelismo, tra gli Altri aristotelici, cioè tra gli aristotelici “minori” rispetto a Pomponazzi, e cioè Cesalpino, Zabarella e Cremonini: «Il tramonto dell’aristotelismo averroistico è segnato dalla figura di Giulio Cesare Vanini nato verso il 1585 nel napoletano, che fu arso vivo a Tolosa come eretico nel 1619. Nella sua opera principale De admiransis naturae reginae deaeque mortalium arcanis ricorrono le tesi tipiche dell’aristotelismo rinascimentale ed altre di Cusano: l’eternità della materia, l’omogeneità della sostanza celeste con quella sublunare, l’identità di Dio con la forza che regge il mondo e la forza naturale degli esseri. Nessuna originalità, ma quasi un riassunto col quale si chiude un aspetto della ricerca naturalistica del Rinascimento».

Così si legge testualmente nel volume – il secondo dei tre originari in cui si articola la prima edizione della Storia della filosofia – intitolato Filosofia del Rinascimento. La filosofia moderna dai secoli XVII al XVIII e pubblicato per la prima volta nel 1948, sessanta e più anni or sono.

Il giudizio su Vanini – «nessuna originalità» – è poco lusinghiero, ma risente ovviamente dello stato dell’arte degli studi vaniniani dell’epoca. Siamo ancora lontani dalla Vanini Renaissance innescata da Andrzej Nowicki, Emile Namer, Antonio Corsano (a partire dalla fine degli anni 50’) e compiuta, successivamente, da Giovanni Papuli e Francesco Paolo Raimondi.

Per la cultura filosofia italiana della prima metà del Novecento Vanini è solo un «plagiario» e le sue opere non sono altro che un «plagio gigantesco». Questa, almeno, la tesi sostenuta tra il 1933 e il 1934 dallo studioso vaniniano Luigi Corvaglia, la “fonte”, diretta o indiretta, di Croce, Gentile, De Ruggiero fino ad arrivare ad Abbagnano.

Indipendentemente dal giudizio, ciò che in questa sede ci preme rilevare è che comunque Vanini, o meglio un paragrafo a lui dedicato, nella edizione originaria della Storia della filosofia di Abbagnano c’era. Anzi, c’è. Intendo dire nelle edizioni Utet e Tea ancora in commercio.

Un paragrafo che, a partire dal 1986, è stato riprodotto, sebbene in forma ridotta e rivista, in tutte le rielaborazioni ed evoluzioni dei "classici" testi di storia della filosofia di Abbagnano editi dalla Paravia («l'Abbagnano piccolo») e dalla Utet («l'Abbagnano grande»), fino alla penultima edizione di Protagonisti e Testi della Filosofia, risalente al 2001. Qui si legge ancora: «L’ultimo rappresentante dell’aristotelismo averroistico è Giulio Cesare Vanini nato verso il 1585 nel napoletano, arso vivo a Tolosa come eretico nel 1619. Il Vanini sostiene l’eternità della materia ed identifica Dio con la forza che regge il mondo, ritornando così al panteismo averroistico».

Ma si tratta dell’ultimo riferimento a Vanini. Nel 2007, infatti, quando esce Il nuovo Protagonisti e Testi della Filosofia, come per magia Vanini scompare. Cioè scompare ogni riferimento a Vanini, persino nell’Indice dei nomi.

L’aspetto paradossale della vicenda è che questa bocciatura casca proprio in un momento d’oro per la fortuna di Vanini. Forse il momento di maggior fortuna per lo sfortunato filosofo.

Mentre l’editore e il curatore del più diffuso manuale scolastico e universitario di filosofia decidevano (in buona, anzi ottima fede, ne sono certo) di “tagliare” Vanini, sul filosofo salentino uscivano, infatti, due pubblicazioni destinate a valorizzarne, rilanciarne e riscattarne definitivamente la figura e l’opera: una monumentale e fortunatissima biografia a firma di Francesco Paolo Raimondi (Giulio Cesare Vanini nell’Europa del Seicento, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2005) e, nel 2010, una nuova edizione e traduzione delle opere presso la prestigiosa collana di filosofia Bompiani “Il Pensiero Occidentale”.

Due vere e proprie pietre miliari preparate e accompagnate, negli ultimi anni, da una lunga serie di saggi e articoli apparsi in Italia e all’estero (presso riviste come «Physis», «La Lettre Clandestine», «Kairos», «Bruniana & Campanelliana»); dalla pubblicazione (nel 2000 e nel 2003) degli atti dei due convegni internazionali di studi su Vanini del 1985 e del 1999; dalla ristampa, nel 2006, dei fondamentali studi vaniniani di Giovanni Papuli; dall’inserimento di Vanini (con Bruno e Campanella) nell’Archivio digitale dei filosofi del Rinascimento dell’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee (Iliesi) del Cnr e chi più ne ha più ne metta.

Contributi grazie ai quali la bibliografia vaniniana ha raggiunto ormai quota 9.000 titoli (che abbracciano una cinquantina di idiomi, tra cui il cinese e il giapponese) e, soprattutto, al filosofo salentino è oggi unanimemente ed universalmente riconosciuto un posto di rilievo nel panorama del razionalismo europeo del primo Seicento (posto che anche Hegel gli riconobbe nelle sue Vorlesungen sulla storia della filosofia).

Tutte premesse da cui emerge che risulterebbe utile, opportuno e, mi permetto di dirlo, doveroso reintrodurre Vanini nell’Abbagnano-Fornero, tanto più che in molti manuali di filosofia meno illustri e diffusi si dedica alla sua figura almeno un paragrafo, se non un intero capitolo.

A tal proposito, in qualità di studioso vaniniano, mi servo di questo spazio filosofico, gentilmente concessomi dalla testata 20centesimi, per chiedere formalmente e pubblicamente alla Spett.le Casa Editrice Paravia e al Chiar.mo Prof. Giovanni Fornero di valutare l’opportunità di reintrodurre nelle prossime versioni dei manuali di filosofia della linea Abbagnano-Fornero, e particolarmente ne Il nuovo Protagonisti e Testi della Filosofia, un nuovo e aggiornato capitolo dedicato alla figura e all’opera di Giulio Cesare Vanini, per la stesura del quale dichiaro sin d’ora la mia disponibilità a collaborare a titolo gratuito ovvero a fornire i contatti degli studiosi vaniniani più illustri e titolati di me.

Mario Carparelli