Ora, mentre questo approccio non sembra scandalizzare più di tanto negli U.S.A. e in Francia (tanto per citare due paesi di indubbio rango filosofico), in Italia è diventato una sorta di “ignominia dell’accademia”, che sarebbe colpevole di scendere a patti con il basso, l’economico, il puro e semplice divertimento. Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un rimbalzo di accuse, repliche, controaccuse e ridicolizzazioni sui quotidiani di maggior esposizione: dal Corriere della Sera al Secolo XIX, dal Giornale ad Affari Italiani fino al Resto del Carlino, sono state messe alla berlina (in un botta e risposta che ha il sapore in realtà di un gioco di ruolo), da un lato, la voglia di riconoscimento di intellettuali annoiati e la loro maliziosa ingenuità nel pretendere che tutto abbia valore filosofico, dall’altro, la mancanza di elasticità teorica dei “conservatori”, foriera di un prossimo (o forse, postumo) rito funebre per la tanto amata filosofia.
Il volume di Laura Anna Macor, studiosa dell’illuminismo tedesco di riconosciuta competenza nonostante la giovane età, dribbla con eleganza tutto questo labirinto di sofismi e dimostra direttamente sul campo in che senso la saga di Harry Potter possa aspirare a uno status più alto rispetto a quello sancito dalle solite etichette “prodotto per l’infanzia/per ragazzi”, “letteratura fantasy”, “moda del momento”, “fenomeno mediatico”. Il metodo è quello di un’interpretazione immanente al testo, che prende sul serio ogni carattere, ogni evento, ogni soluzione narrativa, chiedendosene il perché e valutandone di volta in volta l’efficacia. Nessuna citazione di nicchia, nessuna digressione colta, nessun confronto tra la Rowling e gli autori del canone, solo ed esclusivamente la parola ai sette romanzi. La strada scelta è difficile, perché dimostrare la filosoficità di un prodotto di mercato, per quanto del mercato culturale, è molto più facile se ci si appoggia a stampelle erudite. Questo procedimento, però, non può che lasciare il sospetto che l’interpretazione imbastita sia una sorta di divertimento per l’interprete, desideroso di trovare svago o, peggio, conferma dell’utilità del proprio fare professionale, quando in realtà le cose sono molto più semplici, e cioè non filosofiche. Per essere chiari: se ogni frase pronunciata dal protagonista di una serie televisiva viene accostata a sentenze di indiscussi filosofi della tradizione, il lettore (anche colto, qui non c’entra il background culturale dell’utente) non può scacciare l’impressione che il paragone sia possibile, sì, interessante, certo, ma in fin dei conti arbitrario e … non convincente.
La scelta di Laura Anna Macor, invece, si pone “a valle” di tutto questo, perché attraverso un’analisi serrata e a tratti implacabile dimostra l’intrinseca coerenza della saga. Senza sentirsi in dovere di giustificare il suo approccio in sede introduttiva, Macor ne dimostra l’efficacia pagina dopo pagina, in una sorta di spirale interpretativa che si avvicina progressivamente al nucleo della storia. Centro tematico è la morte, che diventa una sorta di alter ego per tutti i personaggi, impegnati (come tutti noi del resto) nell’inevitabile, doloroso e tremendo confronto con il congedo definitivo, proprio e degli altri. L’esperienza del lutto anticipato (la paura della morte dei propri cari) e vissuto (la morte dei propri cari) come anche la paura della propria morte dominano la struttura della vicenda in misura sorprendente, disegnando un’architettura dell’umano veramente raffinata. Macor si sofferma su temi (La Magia e la morte, Peggio della morte, Amore e morte) e su singoli personaggi (Piton, Voldemort, Silente e ovviamente Harry) e lascia emergere dal testo le pieghe di una riflessione, che può legittimamente essere definita una meditatio mortis in piena regola. Sembra quasi di assistere a una riattualizzazione della strategia del filosofare propria dei miti dell’antichità, dove Orfeo, Prometeo, Alcesti (per nominarne solo alcuni) non si soffermano teoricamente sullo statuto dell’umano, ma agendo ne mettono in luce potenzialità, limiti e illusioni. Sono irresistibili le similitudini tra la vicenda del secondo fratello (della fiaba di Beda il Bardo) e quella di Orfeo, tra la vicenda di Voldemort e quella del Prometeo incatenato di Eschilo che, però, a differenza di Voldemort, nel frammento del Liberato trasmesso nelle Tusculanae di Cicerone, invoca la morte come termine dei mali.
Non si può dire che il testo manchi di pregnanza, anzi. Sembra quasi di rivivere con Marco Aurelio e Lord Shaftesbury il senso ascetico (in senso letterale) del fare filosofia, dove la riflessione diventa una palestra interiore, un vero e proprio allenamento, una disciplina mai veramente acquisita e sempre in atto. Nel complesso quindi, un libro che rende straordinariamente interessante la saga della Rowling anche a chi, non essendo (ancora) fan di Harry Potter, lo è però di tutto ciò che affetta l’interiorità dell’uomo che, come purtroppo insegna l’esperienza, è dominata dalla mortalità. Un’interpretazione che merita veramente ampia attenzione, soprattutto in relazione al progetto culturale che sembra esservi sotteso.
Giuliano Pisani