venerdì 13 gennaio 2012

E' uscito il V volume dell’Epistolario di Nietzsche

È uscito! Lo si aspettava ed è finalmente in libreria: il quinto e ultimo volume dell’Epistolario di Nietzsche (Adelphi, pagine 1358, euro 100). Tra le opere di Nietzsche ce n’è una che non è considerata tale, perché non rientra tra quelle da lui pubblicate o preparate per la stampa, ma che lo è in sostanza, essendo non inferiore alle altre: è appunto il suo Epistolario, un’autobiografia sui generis, che oltre a raccontare i fatti della sua vita, i suoi rapporti calmi o tempestosi coi più svariati interlocutori, illustra motivi, fini e circostanze delle opere, di cui costituisce un commento autentico.

La bella traduzione di questo volume è di Vivetta Vivarelli, e le Notizie e note sono di Giuliano Campioni e Maria Cristina Fornari. È un grande avvenimento, una pietra miliare per gli studi nietzschiani e una gloria della scienza italiana, in particolare per l’apparato, appunto, di Giuliano Campioni e della sua assistente M.C. Fornari. Scritto indipendentemente dall’apparato tedesco, di cui tiene tuttavia conto, specie per le 18 Urabschriften, lettere di Nietzsche che sono conosciute solo nelle trascrizioni della sorella Elizabeth, dunque di non accertabile autenticità, esso si estende per un migliaio di pagine.

È pertanto un’opera nell’opera, che comprende scoperte, inediti e illuminanti ragguagli di ogni sorta: tutto un prezioso sapere, di cui solo il principe dei filologi nietzschiani Campioni era capace, degno continuatore com’è del geniale maestro Mazzino Montinari. Tutti i volumi dell’Epistolario sono belli e importanti, ma il quinto, che contiene tutte le lettere degli ultimi quattro anni lucidi di Nietzsche (gennaio 1885 - gennaio 1889), è certo il più ricco e meraviglioso.

Queste lettere, infatti, “restituiscono con un’intensità forse mai raggiunta in precedenza il suo percorso umano e filosofico, l’attività legata alla pubblicazione delle sue opere, gli stati d’animo da cui nascono i suoi scritti, fino ai cosiddetti ‘biglietti della follia’, nei quali lancia i suoi proclami al mondo firmandosi ‘Dioniso’, ‘Cesare’, ‘Il Crocefisso’” (Campioni). Spicca in esse la solitudine in cui Nietzsche vive e pensa, sullo sfondo di luoghi abbaglianti come Nizza, scelta in inverno per la sua aria mite e asciutta, ma detestata per la sua chiassosità, Sils-Maria in Engadina per l’estate, dove Nietzsche ha l’illuminazione dell’Eterno Ritorno, e alla fine Torino, scelta anzitutto per i lunghi portici che gli consentono, non amante del sole com’è a causa dei suoi problemi di vista, lunghe passeggiate all’ombra, ma poi eletta città ideale anche per altre cose, non esclusa la buona cucina.

La solitudine è per Nietzsche croce e delizia. Delizia perché, come scrive all’amica materna Malwida von Meysenbug, “La solitudine nella natura più solitaria è stata sinora il mio balsamo e il mio strumento di guarigione. Le città movimentate […] alla lunga mi rendono irritabile, triste, insicuro, abbattuto, improduttivo, malato”. Croce perché, per la sua natura estremamente bisognosa di amicizia, amore e comunicazione, la solitudine, aggravata da continui malanni, si trasforma nel suo principale tormento. Egli se ne lamenta con fanciullesco abbandono (“Adesso sono solo, assurdamente solo”), ma anche con la consapevolezza che, per i compiti a lui incombenti, un diverso destino non è possibile. “Ci saranno pochissime persone in Europa che abbiano una cultura abbastanza vasta e profonda per poter percepire quel che vi è di nuovo, inaspettato, profondamente radicale nei miei scritti, ma soprattutto” per “indovinare e sentire la condizione, la passione, dalle quali erompe un tal modo di pensare”, scrive al barone Reinhart von Seydlitz. Per questo egli pensa di non poter amare e di non poter essere amato. “Non riesco a credere”, scrive alla sorella, “che potrei mai amare qualcuno: ciò presupporrebbe che trovassi un giorno – meraviglia delle meraviglie! – una persona del mio rango”.

E aggiunge: “Non dimenticare che io disprezzo, tanto quanto li compiango profondamente, esseri come Richard Wagner e A. Schopenhauer, e che ritengo superficiale in confronto a me il fondatore del cristianesimo, io li ho amati tutti quando non avevo ancora compreso che cosa è l’uomo”. Vorrebbe avere come amici Stendhal, l’abate Galiani e Montaigne, che dice di amare. Egli oscilla così, dice Campioni, tra lo sconforto e l’esaltazione dei suoi grandi compiti, sentiti come missione inderogabile “con il peso di cento quintali”, ma neppure da lui stesso ben padroneggiati. Si tratterà, oggettivamente, di tre missioni, come solo il senno di poi potrà assodare: 1) la distruzione della filosofia logica, sistematica in base a un acume morale nutrito di esperienza e divenuto in lui un sistema sui generis, contrapposto ai sistemi filosofici; 2) la trasfigurazione in poesia tragica della crisi dell’Occidente, con la visione dionisiaca della natura come volontà di potenza, senza fondamento e scopo, che conferisce comunque alla crisi stessa corpo spirituale, legittimità e accelerazione, e 3) la fondazione della religione laica, religione del corpo e della terra, della vita splendente e caduca, piena di infinità ed eternità, ma soggetta al nascere e perire.
 Sossio Giametta