sabato 24 dicembre 2011

Rinascimento per rinascere

Nella biblioteca di Alfonso, nobiluomo di un altro tempo, i filosofi salentini Cesare e Francesco Maria, entrambi ospiti, a Napoli, del comune amico, si trovano a discutere di un nuovo “fermento culturale” che sembra prender piede nella loro terra d’origine, la Terra d’Otranto. Cesare ha da poco ricevuto una lettera del fratello Mario, con la quale gli viene comunicata la nascita delle “Officine Filosofiche di Terra d’Otranto”, ad opera di alcuni giovani del luogo. Il loro intento, si legge nella lettera, è quello di far rivivere il pensiero filosofico del Rinascimento salentino.

Cesare
: Illustrissimo Francesco! Mi è giunta lettera da Mario, fratello mio. Par che, in Terra nostra, audaci et volenterosi giovani si ingegnino per ricuperar le nostre gesta, e l’opre nostre. Che ‘l Rinascimento stia per Rinascere?

Francesco Maria
: Oh, Padron mio! Saluti a voi et alla lieta novella che mi date! E dite: come essi voglion fare? Perdonate i dubbi miei. Sarà mica un gioco di putti il loro?

Cesare
: Oh, no di certo! Si son riuniti insieme, che l’unione – dicon essi – fa la forza; e si chiamano “Officine filosofiche di Terra d’Otranto”. Il peculiare pensiero nostro si vuol studiare. Han messo per l’alto mare aperto della Rete un’Accademia, che chiamano Hydruntina, per diffondere et valorizzar gli scritti nostri.

Francesco Maria
: Una di quelle che diconsi “Enciclopedie Digitali”?

Cesare
: Per l’appunto!

Francesco Maria
: E chi si cura d’essa Enciclopedia? Della sua forma, intendo, e della sua materia, come direbbe il Filosofo?

Cesare
: Se ne curano in tanti. Et allegramente! Tutti interessati alle cose nostre et alli sublimi pensieri. Storia, Filosofia, pensar teologico, Poesia. E musica soave, eloquenza et anco astronomia. “Ricerca soda, archivi et alto divulgare”, il motto loro! Conviti platonici et incontri intendono organizzare, discutendo di sollazzevoli pensieri et argutamente filosofare.

Francesco Maria
: Mi par impegno non da poco, sire, per una compagnia sì giovane et picciola!

Cesare
: Dite bene. Ma a guidarli nell’impresa – ché la scienza non è mai abbastanza – provvedon i sublimi et affinatissimi ingegni d’ogne parte d’Italia di cui soavemente si compone lo “Comitato Scientifico”: il sommo aristotelico Berti, la maestra di color che sanno Campanella, Germana Ernst, il meridionalista Santoro, il bruniano Canone, Zancani d’Oxford e il platonico Girgenti. Et ancora i salentini Rizzo e Villani Lubelli, e poi Sturlese. Tutti guidati da quell’aquila dei vaniniani ch’è il Raimondi!

Francesco Maria: Non potranno fallire a glorioso porto, se seguiranno la stella del Papuli e dello duca suo Corsano!

Cesare
: E chi di lor nol sa?

Francesco Maria
: Che sia il momento, anco per noi, di ritornare? Che si possa costruire in patria, e insieme, la da voi tanto agognata “Repubblica delle Lettere” col Tafuri e col Rao, con lo Storella e lo Scarpa, col de Balmes e lo Zimara, col Balduino, il Marciano e financo quell’impertinente del Vanini?

Cesare
: Finalmente! Li sogni vostri e miei, questi giovani stan sognando! Orsù, incamminiamoci; che forse anche di noi, laggiù, c’è ancor bisogno!


(Donato Verardi e Manuel De Carli)


mercoledì 21 dicembre 2011

Se maya mi dà tanto


Da sempre gli uomini sono convinti che un giorno il tempo finirà e, con esso, anche l’umanità. Tante le profezie catastrofiche che nel corso della storia sono state elaborate e altrettante quelle che per lungo tempo sono state date per certe, alimentando i timori collettivi. 
L’ultima che ha suscitato maggiore interesse, non solo per la prossimità del suo avverarsi, ma anche per il planetario risalto mediatico che ha avuto, è indubbiamente quella elaborata più di cinquemila anni fa dal misterioso popolo dei Maya. Una profezia destinata, come noto, a realizzarsi il 21 dicembre 2012. Esattamente tra una anno.

Anche di fronte a tale ultima, rispolverata teoria catastrofista la domanda che obbligatoriamente si impone è solo una: e se avessero ragione i Maya e quanto da loro predetto questa volta accadesse per davvero? Come vivrebbero gli uomini l’ultimo preannunciato anno della loro era? 
La risposta a tale quesito non è altrettanto immediata, né tantomeno universale, posto che in ogni epoca e in ogni cultura tanti sono stati coloro che hanno provato a darne una.  
A volerne citare solo uno, a noi caro, il pensiero non può che correre al celeberrimo filosofo di Konigsberg, Immanuel Kant, il quale, nell’affrontare il tema della fine del mondo, dell’Apocalisse e del giudizio universale in un piccolo trattato intitolato “La fine di tutte le cose”, ha icasticamente sostenuto che la fine di tutte le cose  sarebbe coincisa con il Fine proprio di ogni Uomo. 
E se così fosse? Non meteore di fuoco, non cataclismi naturali o piaghe dal sapore biblico segnerebbero,  quindi, la fine del nostro mondo attuale, bensì il raggiungimento da parte di ciascuno di noi dello scopo della propria vita. 
Il futuro scenario che si dischiuderebbe per l’anno a venire sarebbe allora il più vario e, indubbiamente, il più roseo. 
Ciascuno di noi potrebbe infatti avere e sentire di avere un diverso “fine” che indirizza la propria vita. Così, per alcuni di noi lo scopo da raggiungere potrebbe essere l’amore, l’amore verso il proprio partner, verso i propri cari o anche solo verso se stessi. Per altri invece potrebbe essere la conoscenza e la scoperta di ciò che ci circonda. Per altri ancora questo “fine” potrebbe coincidere con l’assimilazione a Dio e così via.

In altre parole, ciascuno di noi potrebbe trascorrere l’ultimo ipotetico anno cercando di indirizzare la propria esistenza verso ciò che più lo fa sentire realizzato, vivo e completo, senza lasciarsi dietro futili ed inutili rimpianti. 
Cercando di vivere con consapevolezza. Con quella consapevolezza che più di ogni altra “cosa” la filosofia, nel suo significato più autentico, ci può aiutare ad acquisire. 
Cercando di guardare non solo oltre il calendario dei Maya, ma anche e soprattutto oltre il velo di Maya.

(Cristina Randino)


giovedì 15 dicembre 2011

Mentire allegramente da comunicatori

Nel decennale del corso di laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università del Salento, sono stati indetti una serie di incontri, fra i quali una due giorni dedicata al sociologo canadese Marshall McLuhan che si svolgerà, a partire da oggi – giovedì 15 dicembre – presso il Convitto Palmieri, in due sessioni curate da Stefano Cristante, Carlo Formenti, Mariano Longo e Davide Borrelli.

A questo proposito risulta interessante un intervento di Stefano Cristante, presidente del corso di laurea in Scienze della Comunicazione e docente di Sociologia delle comunicazioni di massa, che sul numero di novembre della rivista Alfabeta, nella sezione che al postmoderno lì vi si dedicava - col titolo di "Tramonto del postmoderno" -, dedica, all'opera del sociologo canadese, un intervento racchiuso sotto il titolo di "A cosa serve McLuhan".

Aspetto fondamentale, a mio avviso, è quello in cui Cristante analizza il pensiero di McLuhan dal punto di vista antropologico per cui risulta che «lo scarto postmoderno, in questa prospettiva, abbandona il terreno fecondo della crisi della modernità attraverso indagini a largo spettro antropologiche (tali considero i lavori di Lyotard e l’esplorazione dei media da parte di McLuhan)» in quanto la riflessione del sociologo canadese, muovendosi sul più ampio piano delle possibilità d’analisi, s’innesta in quel punto cruciale spiccatamente antropologico-sociale d’analisi evolutiva dei linguaggi mediatici, legando a doppio filo la sospesa condizione dell’anthropos a condizioni psico-sociali generanti e derivate dai diversi media che hanno segnato la storia dell’uomo.

La concezione strutturale del mezzo, medium, analizzato di volta in volta in relazione alle sue specificità, porta alla famosa condizione espressa da McLuhan per cui il medium è il messaggio, in relazione alla natura intrinsecamente comunicativa, pervasiva, dei media, tanto da essere essi stessi il messaggio, oggetto d’indagine strutturale che va oltre la consueta analisi del contenuto («il contenuto di un medium è sempre un altro medium», McLuhan, Gli strumenti del comunicare) che il mezzo veicola per spostare, dunque, l’attenzione sul messaggio ch’è implicito alla natura del mezzo stesso. Alla base di tale nozione McLuhan poneva cambiamenti di ritmo, di proporzioni e di schemi, introdotti da un medium nella società; proporzioni e schemi spesso sembrano indicare la strada di sostanziali cambiamenti di ritmo, tanto da poter pensare al ritmo come momento generante la condizione di co-esistenza medium-messaggio. Rintracciamo la nozione di ritmo in mezzi quali la ferrovia, l’aereo, la corrente elettrica e allo stesso modo in quegli stili di vita allucinati, rilassati o frenetici che possono essere dati, di volta in volta diversi, da televisione, internet e nuove tecnologie. Il denaro, in quanto medium, risulta legato a mutamenti di schemi e sistemi sociali tanto da essere, oggi, uno dei veicoli frenetici delle esistenze di passaggio che, alienate, alienano spazi pubblici defraudandoli della loro funzione sociale a vantaggio della piazza del terzo millennio: vetrine, negozi, centri commerciali, il virtuale.

Storicamente, il denaro, legato all’infittirsi di scambi commerciali, è propulsore di sistemi sociali innestati su mutamenti di ritmo e modificazioni delle relazioni interpersonali «Lo scenario urbano si rivelò centrale per accogliere queste innovazioni comunicative. L’infittirsi degli scambi non riguardava solo l’aumento della comunicazione all’interno della città [...] Anche gli scambi con altre realtà urbane erano decisivi, e presero piede gradatamente non solo in ambiente mercantile e commerciale, coinvolgendo a pieno il nuovo milieu intellettuale» (Cristante, Prima dei mass media, Egea, p. 79). Il denaro, che è un numero, è un medium che, in quanto «estensione e separazione della nostra attività più intima» (McLuhan), risulta intellegibile perché legato al senso del tatto, ed è nell’individuo in quel suo essere ancorato alla gioia per la moltiplicazione, dei numeri stessi, nel trovarsi in mezzo ad una folla.

Ma se il numero è nell’individuo ed è legato a gioia, piacere, ed è allo stesso tempo denaro che è oggettivazione del desiderio (Simmel), è nelle vetrine, oggetto contemporaneo del comprare, del desiderio, che si realizza una ulteriore divisione dell’uomo, da parte della struttura – nel senso lacaniano -, che la pulsione, fattasi desiderio, quindi linguaggio, è oggettivata e divisa, nel superamento della condizione di Parlessere, verso una condizione di acquisto che è coincidenza con l’essere, scisso, che non ritrova e non cerca l’altro (Lacan, l’altro è la strutturazione della vita psichica), ma è svagato nel bombardamento in corso delle vetrine, nella frenesia di un sistema al collasso. Se l’uomo, oggi, volgesse lo sguardo altrove? Verso modificazioni del sistema sociale in atto? Se così fosse, sembrerebbe profetica la visione mcluhaniana dell’uomo occidentale ritribalizzato; che sia, però, un ritorno all’ascolto, ad un cambio di ritmo per la rifondazione dell’anthropos.

(Francesco Aprile)


lunedì 12 dicembre 2011

La taverna all'ombra della Costituzione

In una piovosa serata invernale, nella Città del Sole, due compagni di bevute si ritrovano alla Fontana dell’Illuminazione, la taverna per spiriti liberi, come recita l’antica incisione sull’insegna.
– Buonasera, vecchio amico! È un’eternità che non ci si vede! Non avrai mica deciso di confonderti con la mobilia della tua abitazione ottocentesca? Ho trascorso cinque giorni a tracannare rum in totale solitudine, assalito da riflessioni che non potevo condividere con anima viva. Sai quanto mi riesce difficile stringere nuove amicizie.
– Scusami tanto. Sono rimasto davvero sconvolto… Le ultime notizie relative alle manovre economiche per risollevare il Paese mi hanno impedito di uscire di casa, per quanto intenso è stato lo shock nell’udirle. Ma non dovrei giustificarmi con te. Diamine! Non puoi fare affidamento solo su di me! È ora che tu faccia i conti con la tua misantropia! In fondo non sei neanche tanto timido!
– Hai ragione, ma la mia indole pessimista restringe inevitabilmente il cerchio dei candidati a discutere con me. Diciamo che sei l’unico con cui riesco a comunicare. A proposito, parlavi di shock, se non erro. Di manovre economiche, restrizioni appunto. Cosa può averti indotto a rinunciare al buon bicchiere di rum invecchiato venticinque anni che ci concediamo abitualmente? Non è mai successo, deve essere davvero qualcosa di grave.
– Lo è, amico mio. L’hanno fatta grossa. Troppo grossa. Passi anche la testardaggine dei governanti nel continuare a privilegiare la loro casta, perché ormai questo sono diventati, ma far pesare l’onere della salvezza dell’Italia solo sui comuni cittadini no, è inaccettabile.
– Spiegati meglio amico mio. Rinuncia per una volta alla profondità!
– Parlo dei privilegi della Chiesa. Come si fa a ideare una manovra del genere, obbligare le persone a pagare le tasse sui beni immobili in loro possesso – senza tener conto dei rincari sui carburanti, dell’aumento dell’iva e quant’altro – dimenticando di coinvolgere il mondo cattolico? Diamine! Di fronte a simili atteggiamenti non posso fare a meno di dubitare che il processo di secolarizzazione sia effettivamente avvenuto.
– Amico mio, tocchi un tasto dolente per la nostra cara Penisola. Una questione tutta italiana, la quale investe ogni settore della nostra vita, dall’educazione alla politica, attraversando l’etica. Probabilmente un tema tra i più spinosi, quello delle relazioni tra Stato e Chiesa.
– Purtroppo hai ragione. Si tratta di un paradosso: l’Italia è una nazione laica, eppure la Costituzione sancisce un rapporto di tipo pattizio con la Chiesa cattolica. I residui del Concordato del ’29, poi modificato nel 1984, sono parte integrante del nostro diritto costituzionale. Mi interrogo continuamente sulle ragioni di questo ossimoro.
– Voglio esprimere il mio pensiero in merito. Da quanto osservo, il nostro Stato si dichiara laico – quindi si astiene dall’intervento in materia di fede – solo quando si tratta la religione come scelta individuale. Al contrario, quando parliamo di gruppi religiosi, esso ritiene di dover interferire. Fin qui credo che non ci sia nulla di male, perché l’intervento sarebbe mirato a difendere la libertà di scelta del singolo dalle eventuali pressioni e dai pregiudizi dei vari gruppi.
– Prosegui la tua riflessione, amico mio. Spiega perché questo intervento statale in materia di fede diventa problematico, diciamo.
– Beh, direi innanzitutto che i problemi sorgono già nella scelta del sistema di relazioni con le confessioni religiose adottato dal nostro Stato, ovvero quello fondato su concordati e intese, che per nulla si addice a uno Stato laico. Semmai, sarebbe il modello di uno Stato confessionale. Poi direi che il danno maggiore deriva dai privilegi di cui gode la fede cattolica, grazie al Concordato, a cui accennavi poc’anzi, con buona pace del principio di laicità e dell’eguaglianza religiosa.
– Stai parlando del famigerato articolo 7 della Costituzione, esatto?
– Proprio così. È scandalosa una situazione del genere. Pensa che molti la difendono, giustificandosi con il richiamo alle radici cattoliche dell’Italia e della stessa Europa. Intanto noi siamo costretti a pagare e il mondo cattolico invece è esentato. Pensa che paghiamo anche l’acqua al Vaticano!
– Ma come si fa? Basta riflettere e ricordare un grande pensatore del ‘600, John Locke, per comprendere quanto sia inattuale tale sistema di relazioni tra Stato e Chiesa.
– So dove vuoi arrivare… La lettera sulla tolleranza.
– Acuto, amico mio! Il rum non offusca la tua mente, anzi, ravviva la tua memoria. Locke diceva che lo Stato è una società di uomini costituita per preservare esclusivamente i beni civili. Non era suo compito la cura delle anime. La Chiesa invece è, secondo la sua idea, una libera società di uomini che si riuniscono spontaneamente per venerare Dio nel modo che appare a loro più congeniale per onorare la divinità e ottenere la salvezza dell’anima. Locke diceva poi che solo la Chiesa può far leggi che la riguardano e inoltre esse devono limitarsi alla sfera religiosa.
– Questo si che è pensiero moderno!
– Beh, direi che è moderno sia nell’accezione storiografica del termine che in quella convenzionale, amico mio. Che tristezza! Andiamo via, potremmo stare ore e ore a discutere su questo tema spinoso, senza cavare un ragno dal buco. Così va il mondo, direbbe qualcuno…
– È vero. E poi, rivolgi il tuo sguardo fuori, amico… Piove, nella Città del Sole.

(Davide Negro)



giovedì 8 dicembre 2011

Benvenuto Parco Letterario, addio Maestro Nowicki

Due novelle vaniniane: una lieta, l’altra no.

La lieta novella è che Giulio Cesare Vanini è stato inserito nel Parco Letterario della Provincia di Lecce. In quel circuito, cioè, che avrà l’obiettivo di tutelare e valorizzare insieme, soprattutto in chiave turistica, la memoria dei personaggi più illustri a cui il Salento abbia mai dato i natali. Come Carmelo Bene, Vittorio Bodini, Girolamo Comi, Quinto Ennio e, per l’appunto, Giulio Cesare Vanini.

Scontato per il personaggio salentino e pugliese più internazionale e studiato di tutti i tempi? Con una bibliografia di ben 9.000 titoli scritti in 50 idiomi diversi? Niente affatto! Tanto è vero che nel 2009 il nome di Vanini non figurava nella lista dei personaggi “ammessi” ad entrare a far parte del costituendo Parco Letterario.

Un danno scongiurato, ma anche una beffa scongiurata. Tra gli ammessi c’era infatti quel Luigi Corvaglia da Melissano che i più conoscono come l’autore del romanzo “Finibusterre” (1936), ma che per gli studiosi ed i simpatizzanti vaniniani è colui che definì un “plagio gigantesco”, condannandoli di fatto a mezzo secolo abbondante di oblio, gli scritti di Vanini in un’opera intitolata “Le opere di Giulio Cesare Vanini e le loro fonti” (1933-34).

Per fortuna, dunque, ma anche per merito dell’Assessore provinciale alla Cultura Simona Manca (è doveroso segnalarlo), il Parco Letterario della Provincia di Lecce ospiterà al suo interno un “Percorso Vanini” che si snoderà tra Taurisano (città natale del filosofo dove si trovano ben tre abitazioni riconducibili a lui ed alla sua famiglia), Presicce (dove Vanini racconta nelle sue opere di aver assistito a un presunto miracolo, nella locale Chiesa di Santa Maria degli Angeli), Ugento (dove si è da poco scoperto che l’attuale Palazzo Colosso, sede di una importante collezione archeologica, appartenne al filosofo fino al 1607), Lecce (nella cui Villa Comunale si trova un busto di Vanini realizzato da Eugenio Maccagnani nel 1886) e Casarano (dove ha sede l’unico Liceo d’Italia intitolato a Giulio Cesare Vanini, al cui interno peraltro è conservato un busto bronzeo di Vanini realizzato da Donato Minonni nel 1988).

Fin qui la lieta novella. La cattiva è che, proprio nelle stesse ore in cui si avviava l’iter definitivo per la realizzazione di un “Percorso Vanini” all’interno del Parco Letterario della Provincia di Lecce, veniva improvvisamente a mancare alla venerenda età di 92 anni il Prof. Andrzej Nowicki, uno dei massimi studiosi vaniniani di tutti i tempi.

Storico della filosofia e teorico della “incontrologia”; Professore Ordinario all’Università di Varsavia, Wrocław e Lublin; fondatore del Centro di Studi Rinascimentali in Polonia; autore di oltre 1.300 pubblicazioni scientifiche, molte delle quali dedicate a Vanini; Andrzej Nowicki è stato, insieme con Antonio Corsano ed Émile Namer, uno dei padri della nuova storiografia vaniniana.

Il suo capolavoro, il saggio “Le categorie centrali della filosofia del Vanini”, pubblicato per la prima volta in polacco nel 1970 (in italiano nel 1975), ha rappresentato e rappresenta ancora oggi una pietra miliare degli studi vaniniani.

Ma Andrzej Nowicki non è stato solo un fine ed appassionato studioso. Non è stato solo un pensatore originale ed innovativo. È stato soprattutto un Maestro. Un Maestro di umanità e di dignità. Lo piange la sua famiglia. Lo piangono i suoi molti allievi. Lo piangono i suoi amici e colleghi vaniniani salentini, particolarmente Giovanni Papuli, Francesco Paolo Raimondi, Domenico Fazio. Lo piange Taurisano. Lo piange l’Università del Salento, che gli renderà omaggio dedicando alla sua figura e alla sua interpretazione del pensiero di Vanini una Tesi di Laurea in Storia della filosofia.

Grazie Prof. Nowicki. Grazie Maestro.

(Mario Carparelli)


lunedì 5 dicembre 2011

Dialogo sopra le lacrime del ministro Fornero

Una caffetteria qualunque, in una città qualunque. Una donna, tazza di latte caldo tra le mani, aspetta, serena.

-Oh mamma, temevo di non trovarti più!
-Cara, convivo con i tuoi ritardi dai tempi del ginnasio. Siediti, ti ordino un caffè.
-Questa volta la colpa non è mia. Se quella iena della mia vicina di casa non morisse d'invidia per il mio volto senza rughe certamente m'avrebbe dato una mano nel trasloco, e non sarei qui ora, stressata come sono, e in ritardo, per giunta. Suo marito, invece, che galantuomo! Lui mi avrebbe aiutata di certo.

-Hai mai provato ad essere più indulgente nei confronti del nostro sesso?
-Non posso. Non posso esserlo. Soprattutto ora che leggo Simmel. Lui sì, che parla chiaro:
l'uomo è transitivo, la donna intransitiva, ergo: noi interiorizziamo, loro vivono. Logico il loro mondo, irrazionale il nostro. Ah, fossi nata uomo!

-Calma, calma. Cosa vai farneticando? Le tue conclusioni sono affrettate, incompiute. Se dell'analisi simmeliana si volesse fare uno strumento per tessere le lodi ora di un sesso, ora dell'altro, allora potrei dirti che gli uomini, da esseri transitivi, vengono al mondo già intossicati dalla smania di dominio sull'oggetto, mentre le donne, esseri incantevoli in quanto intransitivi, sopportano assai più facilmente gli affanni della vita perché impegnate, sin dalla nascita, nel ben più nobile viaggio verso se stesse.
Ma non è qui che voglio arrivare. Queste sono solo fantasticherie. Parlami di persone piuttosto, non di uomini e di donne.

-Ecco si, fatti la platonica, vai pure dicendo in giro che la differenza che intercorre tra un uomo ed una donna è uguale a quella tra un calvo ed un capellone: nessuna.
-Continua tu, piuttosto, a farti l'aristotelica. Cosa siamo noi, terreno e semente? Che gusto ci provi nello sputare addosso alle donne? Meglio Carla Lonzi, a questo punto.
-...che sputava addosso ad Hegel.
-Si, esatto.
-Amica mia, non cambierai mai.
-Ieri sera a teatro hanno messo in scena la Lisistrata, che meraviglia.
-Credi ancora nelle donne al potere? Un caffè, per favore!

-Credo nel potere delle donne. Credo a Salvatore Morelli. Voglio sperare che le donne, se fornite degli strumenti idonei, sapranno fare della propria curiosità scienza e della propria scienza un giusto governo per la società. Voglio credere che esista un'alternativa a quel mondo fatto dagli uomini e per gli uomini di cui parlava la Fallaci.
-Perché non trasferirti nella giungla della Malesia, a vivere con le matriarche?
-Perché non prendi mai seriamente quello che dico? Eppure le lacrime della Fornero mi danno ragione.
-Hai scelto l'esempio sbagliato. Classica dimostrazione di femminea debolezza.

-Ma piantala! Il binomio lacrime-debolezza è quanto di più scontato si possa concepire.
Domandiamoci, piuttosto, perché abbia pianto. Con l'inflazione che ci tormenta, che un ministro si commuova nel parlare di deindicizzazione delle pensioni, non può che sollevarci.
-Capirai, che grande aiuto...
-Potrebbe essere il segnale di un disaccordo della Fornero rispetto alle scelte del governo tecnico.
-Ottimo! I disaccordi sono proprio quello di cui l'Italia ha bisogno.

(erika sorrenti)



Qualche  tavolino più  in  là. Un uomo sui quaranta andante confonde  il segno dei suoi baffi  in una tazza di latte e cacao.
-Amico mio, cosa fai lì quatto quatto?
-Cerco di trattenere una piccola, irrequieta verità, che prova a strillare a squarciagola. Avanti, siedi, mi fai girare la testa. 
-Prendo un caffè, tu?
-Il caffè incupisce, lo sai.
-Già, e il tè fa bene solo la mattina. Risparmia al tuo stanco amico i motivi della tua accortezza. Ma dimmi, cosa ti disturba? Cameriere, caffè!

«le lacrime della Fornero mi danno ragione…Con l'inflazione che ci tormenta, che un ministro si commuova nel parlare di deindicizzazione delle pensioni, non può che sollevarci»

-Capisco. Speriamo che il latte scotti abbastanza da frenare la tua lingua e la tua “verità”. Pensi di promuovere  il  tributo  di  lacrime  femminile  giornaliero  salutando  quelle  povere  donne,  incappate oggi nell’indicibile sventura di piombare nel tuo campo uditivo?
-Sventura  reciproca,  ma  non  intendo  dir  loro  alcunché…della  donna  bisogna  parlare  solo  agli uomini. Ma sentile, le “emancipate”! A parlar di “tecnocrate”! Degenerate! Tutta colpa tua e degli altri  asini  di  sesso  maschile,  rimbecilliti  amici  delle  donne,  tutti  lì  a  incoraggiare  la  loro sfemminilizzazione! Ed  eccole  a  spargere  fazzolettini  imbevuti  di  lacrime  sui  tavoli  del  governo!
Passino le donne degradate alla cultura generale… ma leggere i giornali e occuparsi di politica!
- E immagino tu trattenga la soluzione, vero? 

-C’è solo un modo per curare una donna: facendole un figlio!
-Allora  sarà meglio  non  affidare  a  te  la  cura  delle  donne!  A  giudicare  dalla  vivacità  delle  tue frequentazioni femminili, sarebbe davvero ardua come impresa. Ma spiegati meglio.
-Tutto nella donna è enigma, e tutto trova una soluzione: si chiama gravidanza. L’uomo è un mezzo, lo scopo è sempre il figlio. Solo così si redime! 
-Sarà,  ma  a  giudicare  del  dilagare  di  “quota  rosa”,  hanno  anche  molti  altri  scopi,  non  trovi?
Possibile che anni e anni di  lotte per  l’emancipazione  ti  scivolino addosso così? È una  storia che gronda sangue, non solo lacrime, che tanto di infastidiscono!

-Ma smettila! Quanto più la donna è donna, tanto più si oppone con mani e piedi ai diritti di genere.
Dalla  rivoluzione  francese  in poi, con buona pace dei  tuoi adorati  libri di  storia,  l’influenza della donna  in Europa  è  diminuita  nella misura  in  cui  sono  cresciuti  diritti  e  pretese!  “Emancipazione della donna”! C’é della  stupidità mascolina  in questo movimento! D’altronde,  lo  stato naturale di guerra eterna tra i sessi darebbe alla donna di gran lunga il primo posto!
- Qui ti volevo. Parli così perché avverti il pericolo.

-Bada  bene  a  non  sottovalutare  la  questione. Nemmeno  tu  rinunci  al  tuo  giocattolino  pericoloso tanto facilmente! L’uomo cerca pericolo e gioco, ed anche per te, più amara è la donna, più ti piace. Esattamente il contrario dei tuoi gusti in fatto di caffè, che per inciso, trovo sinceramente discutibili. Con lo zucchero non hai misura! 
- Tu stesso ammetti che in queste cose ognuno ha la sua misura. Mi piace il dolce, lo sai. Sono così da quando ero bambino e non intendo considerare la cosa problematica, quale che sia il tuo parere in merito.

-Figurati,  anche  nell’uomo  adulto  si  cela  sempre  un  bambino,  e  ritornando  al  nostro  discorso,  le donne questo lo sanno benissimo. 
-Oh, finalmente  il mio caffè. Con doppio zucchero, se non devo  temere di urtare  la  tua sensibilità con questo affronto al tuo buon gusto. 
-Non è me che devi temere. Piuttosto, è delle donne che amano che devi aver paura. Sono tremende, ogni valore è capovolto quando si trovano in questo stato. 

-Seguirò il consiglio, da oggi cercherò di farmi odiare da loro, contento? Posso bere il mio caffè?
-Risolvi poco, come in amore non sono mai seconde e amano più di quanto siano amate, perché in ciò consiste il loro onore, così quando odiano, sono più terribili degli uomini.
-Amare più di quanto siano amate? Le vuoi proprio così infelici?

- Infelici? Assolutamente no. Non confonderti. È la felicità dell’uomo che dice “io voglio”. Quella della donna dice “egli vuole”… è superficie che obbedisce alla sua profondità.
-A sentirti parlare così  ispirato, sembrerebbe che  tu conosca molto delle donne, eh? Ti ergi a  loro “psicologo”?  Eppure  non  rientrano  nelle  tue  abituali  frequentazioni…  come  se  tu  avessi frequentazioni in generale, ma non apriamo la parentesi.

-Davvero? Conosco molte cose? Forse perché nella donna nessuna cosa è  impossibile? O  forse  fa parte della mia natura dionisiaca?
-Forse. Ora devo lasciarti, ho un appuntamento.
-Dove vai, dalle donne?
-Sì.
-Allora, non dimenticare la frusta! 

(simona apollonio)