Un giorno frate Francesco passeggiava nel bosco cantando le lodi a Dio Altissimo per le sue creature: gli alberi, l’erba, i fiori e tutte le meraviglie che i suoi occhi potevano ammirare. Ad un tratto si sentì chiamare per nome: «Francesco, Francesco!».Voltatosi di scatto, si stropiccia gli occhi ed esclama: «Al-Kâmil sei tu!». E subito gli corre incontro e si abbracciano.
«Pace e a te, mio sultano di Babilonia preferito! Come mai qui? Come stai?».
«Abbastanza bene, caro Francesco, – rispose Al-Kâmil – avevo proprio desiderio di fare una chiacchierata con te, come ai vecchi tempi, quando venisti a trovarmi a Babilonia. Ricordo ancora con piacere quella visita alla mia corte. «Come dimenticarla?», sorrise Francesco. «In realtà, lo sai, all’inizio credevo che fossi come tutti gli altri cristiani, che fossi lì per riconquistare i luoghi di Cristo spargendo sangue, ma quando i miei soldati mi riferirono che, catturato, non avevi armi con te fui molto sorpreso: era la prima volta che un cristiano nella mia terra si lasciava catturare senza sguainare la spada e gridare motti di guerra. Ho capito subito che eri diverso dalla tua gente».
Nel frattempo si sedettero su un tronco alle propaggini di un ruscello.
F. «Caro Al-kâmil, per divina ispirazione mi recai nella tua terra, tra quelli che il papa e quelli della mia stessa chiesa definivano “i figli di satana”, i “temuti saraceni”. Io e i miei compagni venivamo in pace e desideravamo esservi assoggettati, per dimostrarvi che Dio non vuole la guerra; ci saremmo lasciati anche torturare in suo nome, senza difenderci se non con la parola.
Quanta sofferenza, quanto dolore, quanta morte hanno visto i nostri occhi nelle imprese abominevoli di chi voleva liberi i luoghi del nostro Signore. Sangue, tanto, quanto l’acqua che scorre in questo ruscello. Perdono, mio sultano! Ti chiedo scusa per le morti inflitte in nome del Signore, per le armi che hanno offeso e trafitto, per le donne violate da coloro che erano stati benedetti dai ministri di Dio».
«Francesco, amico mio – lo fermò Al-Kâmil, con gli occhi lucidi – tu e i tuoi compagni siete stati per me come una luce e il vostro rispetto verso noi e la nostra cultura, attraverso il dialogo che avete intessuto, mi ha fatto scoprire la bellezza della diversità, perché non con brutalità, né con insulti ci si arricchisce. Anzi, ciò è ulteriore motivo di contrasto, di chiusura e di allontanamento; crea barriere e aumenta le distanze, impoverisce e sminuisce. Ascoltandoti ho capito che i cristiani non sono tutti assetati del sangue dei credenti, e tu portavi dentro una grande ricchezza. Ho capito che sulle differenze si possono creare dei ponti per raggiungersi e incontrarsi, come il grande ponte sull’Eufrate, quello di cedro e cipresso che feci costruire per collegare la città vecchia a quella nuova e da cui tutta Babilonia trasse grande beneficio».
F. «Al-Kâmil, fin da subito ho sperimentato l’accoglienza che hai avuto nei miei riguardi, curando le ferite per i colpi che avevo ricevuto, colpito dalla malaria e dalla malattia agli occhi contratta sotto il sole d’Egitto. Io e i miei compagni abbiamo visto nella vostra mano la mano di Dio, fonte di ogni bene. Da voi abbiamo imparato ad avere maggiore ossequio per il nome di Dio e, tornato in Italia, chiesi ai cristiani di rispettare il nome e le parole scritte di Dio, così come avevo visto fare da voi. Da voi ho imparato il rispetto anche per i libri pagani, poiché tutto il bene che vi si trova appartiene a chiunque lo voglia fare proprio».
Al. «È proprio vero, Francesco, ci siamo arricchiti reciprocamente, perché abbiamo guardato non alle cose che ci separavano, ma a quelle che ci univano. Da quel nostro incontro è nata una bellissima amicizia, io ho ammirato la tua saggezza e il tuo esempio, fatto non di parole, ma di gesti e di sguardi. Ho voluto dimostrarti la mia gratitudine e la mia riconoscenza offrendoti denari e ricchi doni, ma tu non li hai presi, neppure quando ti pregai di distribuirli ai cristiani poveri e alle chiese, così ho capito la straordinarietà della gratitudine senza interesse».
F. Tu, mio sultano, avevi per me la stessa importanza del mio papa, l’incontro con te e la tua gente è stato per me motivo di conversione, proprio come lo fu l’incontro con il lebbroso che cambiò tutta la mia esistenza».
Seguì un silenzio carico di pensieri.
«Vedi, Francesco, nonostante siano passati secoli dal nostro incontro – interruppe il sultano – questo nostro esempio non è stato accolto e altro sangue e altri abomini nel mondo si sono compiuti. Le differenze hanno fatto e continuano a fare paura e invece di sentirsi tutti fratelli, figli di uno o tanti dèi sotto lo stesso cielo, si continua a seguire la logica selvaggia per cui il più forte schiaccia il più debole».
F. «Dici bene Al-Kâmil: ciò che è diverso fa ancora paura e lungo il corso della storia l’umanità ha dimostrato un’enorme potenzialità di male, ha dimostrato quanto sia stato facile lasciarsi trascinare dalla violenza, dallo scontro degli uni contro gli altri, dall’opposizione di un mondo contro un altro, dallo scontro di una religione e di una cultura contro un’altra. Tante le cose terribili che turbano la mia anima: la strage degli indiani d’America, il mercato degli schiavi d’Africa, il genocidio perpetrato contro gli ebrei, i rom, i sinti, le guerre e le stragi, i campi di concentramento, i desaparecidos fatti sparire... e potrei continuare con tanti altri esempi, ma il mio cuore non regge a tanto dolore. Odio che nasce dalla paura del diverso, dal pregiudizio».
Al.«Il mondo ha subito quel processo che chiamano globalizzazione, ma io credo, mio amico Francesco, che la globalizzazione non debba essere intesa solo come libera circolazione dei beni; dovrebbero liberamente circolare anche il dialogo, la solidarietà e la giustizia».
F. «Il mondo, ormai un solo, grande mondo, dovrebbe sentire ancora di più la necessità di dialogo e se gli uomini fondassero la loro esistenza su questo supererebbero divisioni e conflitti. Il dialogo è l’unica via per non lasciare il mondo in balia di una globalizzazione senza volto che inevitabilmente diviene crudele. Esso infatti non lascia indifesi: protegge. Non indebolisce: rafforza. Spinge tutti a vedere il meglio dell’altro e a radicarsi nel meglio di sé. Il dialogo trasforma l’estraneo in amico e libera dal demone della violenza. Nulla è perduto con il dialogo. Esso è medicina che cura nel profondo, che libera dalla patologia della memoria, che apre al futuro. Ancora oggi ci sono uomini che invocano il nome di Dio per giustificare l’odio e la violenza! Noi, sultano, mio amico, in quel nostro lontano incontro abbiamo capito che la religione non può e non deve essere causa di odio e giustificare la violenza; il nome di Dio, del mio Dio, del tuo Dio, è Pace. Nessuno può invocarlo per benedire la propria guerra. Solo la pace rende culto a Dio. Il culto dell’odio genera violenza e umilia la speranza. La violenza è una sconfitta per tutti! A chi calpesta l’uomo e il pianeta dico: in nome di Dio, rispettate il creato e ogni creatura! La loro vita è il vostro futuro e la vostra speranza».
Detto questo, Francesco strinse la mano che il Sultano gli aveva posto sulla spalla e i due stettero a guardare il loro riflesso nelle acque del ruscello, ascoltandone il mormorio.
«Ora devo proprio andare, Francesco – disse il Sultano – Mi auguro che quando ci rincontreremo le cose saranno cambiate e la terra sarà monda da conflitti, odio, rancori. Nutro la speranza che gli uomini chiedano perdono e perdonino di cuore, impegnandosi a costruire un mondo fondato sulla solidarietà e la fraternità. “Dov’è l’odio io porti l’amore…” – accennò cantando Al-Kâmil sorridendo – “Dov’è tenebra io porti la luce, – continuò Francesco, sorpreso che l’amico ricordasse ancora il canto che egli gli aveva insegnato a Babilonia – dov’è offesa io porti il perdono, dov’è l'errore io porti la verità…».
Così cantando Al-Kâmil e Francesco si allontanarono su sentieri differenti ma con il cuore pieno di speranza.
Antonio Mattia