Capiremo mai il vero
significato della morte? Saremo mai in grado di scoprirne almeno in parte i
suoi misteri? Potremo mai sapere se
l’anima, ammesso che esista, continui a “vivere”, anche dopo essersi separata dal corpo? Probabilmente tutti questi resteranno per
sempre i grandi quesiti irrisolti nella storia del pensiero dell’umanità, ma, come ci suggerisce Platone: “filosofare significa prepararsi a morire”.
Le descrizioni platoniche della morte sono in
tutto simili a quelle di cui si parlerà in seguito: la morte, dice il filosofo,
è la separazione della parte incorporea (l’anima) dalla parte fisica
(corpo). L’anima
separatasi dal corpo può incontrare spiriti di trapassati, conversare con loro
e venir guidata, nel passaggio dalla vita fisica all’altra vita, da spiriti
custodi. Il corpo è la prigione dell’anima e la morte è come
una fuga o una liberazione dal
carcere. L’anima
entra nel corpo venendo da un più alto e divino regno e la nascita è dunque il momento del sonno e
dell’oblio, poiché l’anima, quando entra nel corpo, passa da uno stato di
profonda consapevolezza ad uno stato di ben minore lucidità
e dimentica la verità che conosceva prima.
La morte, implicitamente, è un risveglio, un ritorno alla memoria. Tuttavia,
pur credendo fermamente ad un’idea di morte così intesa, è sempre
difficilissimo affrontarla e non vi sono mai cause o condizioni definite tanto fondate
e ragionevoli da giustificare la morte di un essere umano, anzi, molto spesso
esse ci appaiono assurde e paradossali.
Basti
pensare alle ultime vicende di cronaca: nel giro di poco più di un mese, nel
mondo dello sport, sono stati registrati quattro casi di giovanissimi atleti o
ex atleti colpiti da arresto cardiaco: F. Muamba, unico sopravvissuto, V.
Bovolenta, F. Mancini e P. Morosini.
Queste
inconcepibili morti hanno acceso l’importante polemica sull’inadeguatezza dei
controlli medici nel mondo dello sport e diffuso una ammirevole campagna
nazionale di sensibilizzazione per l’installazione di defibrillatori presso
tutti gli impianti sportivi, perché è noto che, dopo un arresto cardiaco, ogni
minuto perso equivale al 10% in meno di possibilità di salvare una vita.
A
tal riguardo, va segnalata la lodevole iniziativa del Presidente della
Provincia di Brindisi, Massimo Ferrarese, di acquistare ben 40 defibrillatori da distribuire sul territorio provinciale: 38
per gli istituiti scolastici superiori (dove saranno organizzati degli appositi
corsi di formazione), uno per il Tribunale di Brindisi e l’altro per la
Prefettura/Provincia.
Oltre a tale questione, tuttavia, le recenti morti nel mondo
sportivo hanno fatto luce sulla delicata faccenda del rapporto tra il “morire e
il tornare a vivere”. Quest’ultima fa particolare riferimento al caso di Fabrice
Muamba, ventitreenne congolese e centrocampista del Bolton, il quale, lo scorso
17 marzo, colpito da un grave arresto cardiaco, è svenuto in campo durante il
quarto di finale di Coppa d’Inghilterra contro il Tottenham. Nonostante il suo
cuore abbia smesso di battere per ben 78 minuti, mentre medici sportivi in
campo e in ospedale tentavano la rianimazione, l’asso del Bolton non solo è
tornato in vita, ma – ed è la cosa più incredibile - al suo risveglio non ha riportato
alcuna lesione cerebrale.
“Temevamo il peggio, è
praticamente morto per 78': i 48' da quando è collassato a quando è arrivato
all'ospedale e altri 30' dopo. Non c'era verso di rianimarlo, quando siamo
arrivati in ospedale e i medici hanno preso in mano la situazione sono uscito in
corridoio e ho pianto. Abbiamo usato due volte il defibrillatore in campo, una
nel tunnel degli spogliatoi e 13 volte in ambulanza, ma nulla sembrava
funzionare. Non credevamo che si riprendesse così in fretta come sta facendo. È
incredibile”. Sono queste le dichiarazioni, raccolte in un'emozionante
intervista alla Bbc, del medico del Bolton J. Tobin, il primo ad aver soccorso
F. Muamba. E sempre in riferimento al caso Muamba, è stato scritto un
interessante articolo su Panorama, intitolato “A volte (spesso) ritornano”, in cui viene illustrato
il curioso tema dell’esperienza pre-morte o NDE (acronimo per
l'espressione inglese: near death experience).
Le NDE sono
esperienze vissute e descritte da soggetti che, a causa di malattie terminali o
eventi traumatici, hanno sperimentato fisicamente la condizione di “morte
clinica”, a causa di coma o arresto cardiocircolatorio e/o encefalogramma
piatto. Una volta riavutisi, questi stessi hanno raccontato di aver vissuto
esperienze ultraterrene e/o extracorporee. La maggior parte delle testimonianze
raccolte dagli studiosi del fenomeno come il cardiologo olandese Pim Van
Lommel, o il medico e psicologo statunitense Raymond Moody, o ancora
l’anestesista e docente universitario padovano Enrico Facco, hanno caratteristiche
comuni: visione dall’alto della sala operatoria o del letto
d’ospedale del proprio corpo “morto”, viaggio in un
tunnel di luce e visione panoramica della vita (life review), sensazioni di
pace e assenza di dolore, incapacità di stabilire il fluire del tempo,
riluttanza a tornare in vita, disagio al momento del risveglio.
Anche Platone, senza
saperlo, nel libro X di una delle sue principali opere, “La Repubblica”, potrebbe aver anticipato l’esistenza di questo
fenomeno, nel racconto del famoso mito di Er, un soldato greco morto in
battaglia, il quale si era “risvegliato” dopo diversi giorni e aveva raccontato
cosa aveva visto nel suo viaggio verso la morte.
Nel 1944, lo psichiatra
svizzero C. G. Jung, nel suo libro autobiografico “Ricordi, sogni, riflessioni”, descrisse una sua personale
esperienza pre-morte, provata a seguito di un infarto miocardico. Nulla di
strano se si pensa che è oggi dimostrato che le NDE coinvolgano una quota che
oscilla tra il 15 e il 18 per cento delle persone colpite da arresto cardiaco.
Al di là delle controversie
scaturite dalle due opposte teorie interpretative - materialista e
spiritualista - questo fenomeno fa emergere una fondamentale riflessione:
perché relegare la morte nel mondo dell’inconoscibile e dell’ignoto, o ancora
peggio definirla come il “nulla eterno”, il buio, l’oscurità, solo perché la
scienza non è riuscita a trovare una via adatta per esplorarne le sue
caratteristiche?
Oggi più che mai, forse in virtù
delle sue sempre più evolute potenzialità, l’uomo necessita di una consapevolezza più profonda di che cosa sia la vita e
quindi anche di che cosa sia la morte, di cosa significhi vivere, ma anche
morire.
Basti ripensare alle
parole di uno massimi filosofi della storia del pensiero come Seneca, il quale così
scrisse: “Ascoltami: verso la morte sei spinto dal momento della nascita.
Su questo e su pensieri del genere dobbiamo meditare, se vogliamo attendere
serenamente quell'ultima ora che ci spaventa e ci rende inquiete tutte le
altre”.
Socrate affermava che il
vero saggio è colui che sa di non sapere; l'umiltà nella ricerca allora ci farà meravigliare sempre di quante cose non conosciamo e di
quante strade esistano per arrivare (se mai arriveremo) alla verità e alla
conoscenza.
Non avere i paraocchi nell’ambito
della ricerca epistemologica significa quindi avere anche il coraggio di vagliare
nuovo campi di ricerca - come quello della esperienza pre-morte - dei quali
spesso si nega anche la stessa esistenza o che spesso si è soliti segregare nell’ambito del nulla o
dell’inconoscibile, solo perché non sono direttamente verificabili e
osservabili.
Elisa Cantone