Parigi cambia! Ma niente, nella mia
melanconia,
s’è spostato: palazzi rifatti,
impalcature,
case, vecchi sobborghi, tutto m’è
allegoria;
pesano come rocce i ricordi che amo
[…].
Città brulicante, piena di sogni, dove
in pieno giorno gli spettri adescano i
passanti!
E si potrebbe proseguire oltre. La
voce di Charles Baudelaire si leva inconfondibile, specchio unico ed
irrepetibile di una nuova età del mondo. Siamo nella seconda metà
dell’Ottocento, a Parigi, in una Parigi che si rinnova, che vive negli spasmi
della trasformazione. La città cambia pelle, diviene una metropoli, costituendo
lo scenario dentro e intorno al quale l’uomo civilizzato inizia a fare
esperienza della dialettica progresso/regresso. Seppure con toni e accenti
differenti, ritorna in Baudelaire il tema, tipicamente settecentesco, della
corruzione dell’uomo civilizzato e della perdita della sua purezza originaria:
«Che cosa sono i pericoli della foresta e della prateria – scrive Baudelaire –
paragonati agli scontri e ai conflitti quotidiani della civilizzazione?».
L’euforia del “nuovo” e del “rapido” (che poi diventeranno,
di lì a poco, alcuni dei pilastri centrali del Futurismo) ancora non consente,
all’uomo comune, di cogliere appieno la tragicità di tale dialettica; azione,
invece, che può compiere il genio, l’artista, il letterato. Baudelaire incarna
senza dubbio, e non potrebbe essere altrimenti, l’ésprit du temp, ma, come ogni genio, lo attraversa, lo percorre, lo
studia, lo comprende, lo critica, lo supera. Del nuovo mondo Baudelaire coglie
le possibilità e le virtù, ma soprattutto la limitatezza e l’orrore, nella
consapevolezza di vedere ciò che gli altri non potevano vedere, di sentire ciò
che ancora gli altri non potevano sentire. Scrive Baudelaire:
Quanto a me,
che a volte sento in me la ridicolaggine di un profeta, so che non ci troverò
mai la carità di un medico. Perduto in questo mondo orribile, preso a gomitate
dalle folle, io sono come un uomo fiaccato il cui occhio non vede dietro di sé,
negli anni profondi, altro che disillusione e amarezza, e dinanzi a lui
nient’altro che una tempesta in cui non c’è niente di nuovo, né insegnamento,
né dolore.
Particolarmente esemplificativa
dell’esperienza del “negativo” tipica del mondo moderno e civilizzato è la
lettura mattutina del giornale. Il quotidiano, in quanto rapporto giornaliero
sui fatti e sugli eventi del mondo, rappresenta tendenzialmente lo specchio
dello stato delle cose. «È impossibile scorrere un giornale qualsiasi, non
importa di che giorno o mese o anno, senza trovarci ad ogni riga i segni della
più spaventosa perversità umana, contemporaneamente alle vanterie più sorprendenti di probità, di bontà, di carità, e alle
affermazioni più sfrontate relative al progresso della civiltà. Ogni giornale,
dalla prima all’ultima riga, non è altro che un tessuto d’orrori». Un tessuto
d’orrori. Questo è il mondo moderno, questa è la Parigi che si avvicina al xx secolo, questo è il palcoscenico
triste, nella sua eccitazione, e desolante, nel suo dinamismo, che Baudelaire
vive e tratteggia, facendo «rivivere l’infinito e l’eterno nella contingenza,
nell’effimero, nello spleen che
domina la modernità (la metropoli parigina e i suoi «passaggi», la moda, la
prostituta, l’inedito vincolo dell’artista con il mercato, la folla, le merci,
ecc.)».
Baudelaire incarna lo spirito del dandy, del flâneur, come anche quella del rôdeur
(vagabondo) e del promeneur (passeggiatore).
E non è un caso che uno dei titoli da lui progettati per la raccolta Spleen de Paris fosse Le rôdeur parisien. Vagabondare e
passeggiare tra le vie della grande città, addentrarsi nei territori e nei
meandri più oscuri, incerti ed abominevoli, significava essenzialmente
perdersi, smarrirsi, sperimentare l’irrazionalità e l’illogicità dei labirinti
metropolitani. Si trattava, probabilmente, di un perdersi come inizio, come
conquista degli spazi, come incipit
di un orientamento smarrito o mai posseduto: «Perdersi in questi casi è la
condizione d’origine, il bisogno ed il terreno su cui si comincia o si
ricomincia ad orientarsi. Dal perdersi all’orientarsi c’è un processo
culturale, l’uso delle occasioni esterne, indifferenti, per volgerle a nostro
favore, il piegare l’estraneo a divenire accogliente, a permettere di
dimorarvi».
Il passeggiare ed il perdersi assumono
in Baudelaire un’intonazione peculiare, costituendo un coatto e costante gioco
di rinvii tra l’attrazione per il malsano universo metropolitano
(l’osservazione quasi ossessiva) e la fuga implacabile nella rêverie, nella «camera di sogno», nelle
fantasticherie che, sebbene transitorie ed illusorie, uniche potevano prendere
la forma di un altro mondo, lontano
dall’orribile invivibile realtà. Il genio parigino fa continua esperienza di
una duplicità inevitabile alla quale non può resistere e non può sottrarsi:
progresso/regresso, realtà sociale/sogno, passato/presente,
incivilimento/civilizzazione, solitudine/moltitudine, tragedia/farsa,
poeta/saltimbanco, riso/pianto, ecc. Baudelaire, nelle prose dello Spleen, componeva in fondo metafore su
colui che voleva essere percepito essenzialmente come doppio:
il poeta che
è entrato nel mondo per un «decreto delle supreme forze», e che comprende «il
linguaggio dei fiori e delle cose mute», – scrive Giuseppe Montesano – è la
stessa persona che ne Le vieux
saltimbanque, coperto dagli stracci di un saltimbanco ridotto in miseria,
ha abdicato al suo dominio sulla parola nel mutismo più assoluto. Strangolato
dalla mano dell’isteria, il poeta che contempla nello sfacelo del saltimbanco
il suo sfacelo, è accecato da «lacrime ribelli» […]. L’ultimo gradino è sceso,
il tragico si avvia ormai ad essere leggibile solo come farsa: per chi ha
perduto l’aureola, riso e pianto si sono confusi in un inestricabile,
irreparabile sfregio sul volto della bellezza.
Nella Parigi di fine Ottocento,
quell’angoscia e quel profondo turbamento (legato, in Baudelaire come in
Rimbaud, alla perdita dell’individualità) si trasferisce nel corpo sociale,
accentuando progressivamente il bisogno di distrarsi nell’eccezionale, di
provare uno choc liberatore, finendo col decretare una metamorfosi capitale al
termine della quale la massa si
trasformerà definitivamente in pubblico.
Giacomo Fronzi