È un lungo e
variopinto corso di pensieri quello che si scopre in Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia (Mursia 2012);
nel suo ultimo libro Sossio Giametta è incalzato dalle puntuali domande di
Giuseppe Girgenti a raccontarsi, per autointerpretarsi,
come traduttore e come interprete, come scrittore di racconti e come pensatore,
in un lungo dialogo fitto di dettagli e sempre fecondo di riflessioni.
Se la traduzione
delle opere di Nietzsche (ma non solo, e si pensi a due nomi dal calibro di
Schopenhauer e Spinoza) è stato il grande impegno della vita di Giametta (noto
collaboratore per l’edizione critica Colli-Montinari), è stato questo un
impegno travalicante il dovere della fedele resa del pensiero in altra lingua
di uno degli autori «più ostici, pericolosi e difficili da domare». Mosso dal
«gusto quasi infantile» per la lingua, dal «piacere di rendere bene nella
propria lingua qualcosa che è bello in un’altra lingua», ed anzi proprio in
virtù di questo, Giametta è giunto, grazie ad un incontro così ravvicinato con
l’intera opera nietzschiana, a sbrogliare l’intricatissima matassa Nietzsche,
risolvendo quell’enigma che ancora egli è per molti.
Per quanto
l’irruenza del pensiero nietzschiano abbia fatto pensare a una gigantesca e
spettacolare onda anomala alzatasi sopra il mare dell’umanità (finanche a «6000
piedi sopra il livello del mare», secondo il diretto interessato), l’onda
sempre parte del mare è, e come tale sempre ad esso ritorna con tutto il suo
fragore spumeggiante. Nell’interpretazione di Giametta, Nietzsche non è “a
parte” o “superiore” rispetto l’umanità, ma ne è a tutti gli effetti “parte”
quale suo organo e strumento, con buona pace della fitta schiera di “nietzschiologi”
(loro sì, indomabili e indisciplinati fino allo scadere in casi estremi
nell’assurdità e comicità) sempre pronti al saccheggio dell’arsenale ben
fornito dei suoi scritti (per riprendere un’immagine di Mazzino Montinari che
Giametta riferisce), insensibili o peggio colpevolmente indifferenti all’idea
che il tutto dipenda dal senso delle parti.
È per l’appunto
Nietzsche il “bue squartato” del titolo, brutalmente strattonato e conteso tra
innumerevoli interpretazioni attualizzanti e strumentalizzanti, fameliche della
ricchezza del pensiero nietzschiano. In suo soccorso giunge l’interpretazione
storico-critica di Giametta secondo il metodo filologico classico, che ne
restituisce sì, finalmente, un’immagine globale e compiuta, ma che non lo
esonera dallo smettere quelle maschere dietro le quali, suo malgrado, Nietzsche
ha indugiato anche troppo a lungo: «non bisogna inseguire gli autori nei loro
nascondigli, bisogna stanarli e strappar loro le maschere, perché vengano alla
luce del sole e rivelino il loro volto; bisogna portarli dinanzi al tribunale
dell’umanità affinché rendano conto del loro operato in funzione del servizio
loro richiesto dalla storia e dall’umanità».
Così Giametta
racconta di aver scoperto in Nietzsche l’unità e la coerenza sotto la varietà e
le contraddizioni, il poeta e il moralista mal celati sotto le vesti del
filosofo, e soprattutto di aver scovato la storia sotto la filosofia: “perfino”
il filosofo di Zarathustra è a noi pienamente comprensibile solo se lo si
riconosce strettamente avvinghiato alla sua epoca, in un legame impossibile da
sciogliersi senza incorrere in gravi travisamenti. Proprio il tentativo, a
tratti disperato e drammatico, di divincolarsi dalle morse e dai lacci del
tempo di cui era ribelle creatura ha fatto di Nietzsche un intransigente
inattuale: egli ha sofferto più di chiunque altro, facendosene l’espressione
più viva e ardente, della crisi e dei problemi che come correnti marine
scorrevano nelle acque più profonde della proprio epoca, e volente o nolente, in
essi è sprofondato fino a scorgere sempre più lontana la superficie appena
increspata dell’attualità.
Strappare le
maschere dal volto di Nietzsche significa, da una parte, riscoprire in tutta la
sua forza dirompente il solo vero filosofo dell’immanenza, il «campione della
giustizia verso la vita», il suo tentativo di fondazione di una religione laica
che celebri la vita in tutta la sua tragica fugacità; d’altra parte, per
Giametta, significa anche fare i conti con i suoi “errori” gravidi di
drammatiche, sebbene non volute, conseguenze, come Giametta ritiene ad esempio
la trasvalutazione di tutti i valori, degenerata nel trionfo dell’animalità e
del vitalismo selvaggio.
Il porsi in aperto
e intransigente dialogo con i propri “autori” è l’atteggiamento che muove
Giametta nel confronto non solo con Nietzsche, ma anche con Schopenhauer: si
veda il capitolo Da Nietzsche a
Schopenhauer, ricco di considerazioni sulla filosofia de Il mondo come volontà e rappresentazione,
per Giametta il libro di filosofia più bello, completo e onesto che vi sia, se
pur non esente da critiche puntuali e articolate. Sconti non sono fatti nemmeno ad altri
giganti del pensiero quali possono essere Heidegger o Marx, esempi noti del
drammatico intrecciarsi del pensiero con la storia (nel denso capitolo Politica, di ieri, volando alto), per
portarli, come detto prima, dinanzi al tribunale dell’umanità a rendere conto
del loro operato e per strappare alla filosofia quel velo di innocenza che non
le appartiene: anche e soprattutto questi grandi del pensiero, ribadisce
Giametta, hanno sulle spalle pesanti responsabilità: «tutti hanno
responsabilità per quel che pensano, dicono e fanno, come gli uomini hanno
sempre pensato da che mondo è mondo […] I pensatori hanno certamente
responsabilità, un’altissima responsabilità di fronte alla verità. Questa
responsabilità è aggravata dalla loro consapevolezza delle conseguenze che le
loro idee possono avere». E il peso di tale responsabilità si avverte nei
“dinamitici” capitoli in cui Giametta come pensatore, con chiarezza e pochi
giri di parole, affronta temi quali il cristianesimo, la Chiesa, fino alla
discussione circa l’ammissibilità o meno della pena di morte sotto il profilo
filosofico.
Merita
considerazione a parte il capitolo di “commiato” rivolto ai giovani pensatori,
cui è raccomandato di dedicarsi alla filosofia «solo se non se ne può fare a
meno», non nel senso di cedere a una tentazione o ad un vizio, ma nel senso di
“viverla” come «il più personale e improrogabile degli impegni» rimanendole
fedele sempre e sempre animati da quella “passione divorante” che diviene
l’unica forma in cui tale passione può darsi: essa è “dolce” nella misura in
cui a tale divorarsi corrisponde «una grande voluttà, la più grande felicità»,
sì che bisogna dar ragione a Nietzsche nel paragonare il piacere della
conoscenza al piacere di generare. Né qui l’aggettivo “dolce” allude a quella
dolcezza smielata per cui gli pseudo- filosofi naufragano beati e lieti in un
mare di falsi problemi, creati ad hoc da
quella “cattiva filosofia” ormai incapace di riflettere sulla vita: «i
problemi, deve essere la vita a crearli, non il filosofo», scrive Giametta. Ai
filosofi spetta l’arduo compito, se possibile, di risolverli, quando si rendono
conto (magari anche con sorpresa e a loro insaputa) di essere saliti su un
“treno speciale” e di non avere altra scelta possibile se non quella di
proseguire il viaggio.
Simona Apollonio