Egmond op de Hoef, presso Alkmaar.
Maggio del 1643, ore 20.33. L’orologio aveva da poco superato le 20.30 e
Descartes, come d’abitudine, sedeva sulla sua amata sedia, sempre rigorosamente
vicino al camino, con indosso la sua giacca da camera preferita, rossa con dei
lavori sul dorato. Questa volta a fargli compagnia non sono né la sua cara
penna, né i suoi preziosi libri, bensì delle preoccupazioni. Tra le sue mani vi
erano dei fogli al cui margine superiore vi era stampato il titolo: “Philosophia
Cartesiana” ma, ironia della sorte, questi fogli non erano stati scritti da
lui:
D.
“Dannato Voetius! Me l’ha combinata grossa questa volta. Se tutto il tuo zelo
nel calunniare lo utilizzassi per le tue care anime, a quest’ora staremmo tutti
in Paradiso!”.
Quelli che ha tra le mani il filosofo
sono alcuni fogli dello scritto di Gijsbert Voetius e Martin Schoock dal titolo
“Admiranda Methodus”, che aveva come obiettivo quello di
condannare la filosofia cartesiana, ritenuta sovversiva. Descartes era adirato
nel leggere le innumerevoli ingiurie contenute in quelle poche righe, e
continuava a domandarsi il perché di tante accuse. Credeva, ingenuamente, che
l’ira e l’invidia del teologo Voetius si fossero placate dopo gli avvenimenti
di Utrecht. Ad ogni modo, mentre i suoi battiti del cuore aumentavano in modo
proporzionale alla velocità con la quale leggeva quelle accuse, ad un certo
punto il tempo ed il suo cuore sembrarono fermarsi nel preciso istante in cui i
suoi occhi lessero quello che non avrebbero mai voluto. Le sue mani sudate,
ormai, avevano sgualcito quei fogli ed una morsa allo stomaco gli impediva
quasi di respirare; insomma Descartes era in procinto di avere quello che gli
psicologi clinici, oggi, chiamerebbero un vero e proprio attacco di panico. A
provocare questa reazioni fu l’accostamento, nello scritto, del nome del
filosofo francese al nome di un altro filosofo. Uno spirito libero e libertino,
un uomo di corte, abile paroliere e stratega del pensiero, dallo spiccato
umorismo intellettuale, caratterizzato dalla costante incredulità in materia di
religione, dalla sua indole stravagante, dalla
cultura poliedrica; un uomo che attirò l’attenzione della corte parigina
del XVII secolo, per farla breve un bello e dannato, un salentino doc: Giulio
Cesare Vanini.
Tra le cose che fecero infuriare
Descartes vi era proprio l’accostamento del metodo cartesiano a quello
vaniniano:
D.
“Ma come si fa a paragonare la mia filosofia a quella di uno sciocco ateo come
Vanini, se le mie prove per dimostrare l’esistenza di Dio sono le migliori che
siano mai state proposte? E come è possibile paragonarmi a lui solo perché
entrambi abbiamo scelto di allontanarci dalla filosofia tradizionale? Io non ho
nulla in comune con Vanini e, soprattutto, lui non ha nulla in comune con me!”
Preso dalla collera, il filosofo si
alzò dalla sedia, si versò un bicchier d’acqua che sorseggiò affacciandosi alla
finestra della sua camera, ma una grassa risata interruppe la sua meditazione spaventandolo:
V.
“Beddhru miu! Ma ce sta passi?!”
Descartes, colto da spavento, fece
cadere il bicchiere dalle mani, facendolo frantumare sulla moquet. La sua bocca
non riusciva a proferire parola nel vedere un uomo piuttosto giovane e di
bell’aspetto, con capelli neri e mossi lunghi, un baffetto indisponente ed un
naso importante, che con aria divertita sedeva allegramente tra le fiamme del
camino.
V.
“Renato! Ce t’ha mpauratu? Nu me sta canusci?! Settate! Nu be ca te sta bene nu
colpu?”
Descartes tra l’incredulità e la paura
riuscì a balbettare una prima timida domanda a quello spettro:
D.
“Ma sogno o son desto? Chi sei tu? Cosa vuoi da me e in quale lingua ti rivolgi
a me?”
V.
“Ohimmè stranu ca nu me sta capisci! Te faci tantu spiertu cu lu latinu! Cu lu
salentinu ddhrai stamu! Comunque… possibile che tu non sappia chi sono?
Osservami bene, non aver paura!”
Descartes si avvicinò intimidito e
improvvisamente piombò come un peso morto sulla sedia quando si rese conto che
lo spettro non aveva lingua.
D.
“Ma sei Vanini! Ma come fai a parlare senza lingua e soprattutto cosa vuoi da
me?”
V.
“Sono venuto a prenderti, caro collega! Con tutte le cose che hai scritto, le
accuse che ti hanno rivolto, la tua fine non solo è vicina, ma sarà identica
alla mia!”
D.
“Giovane insolente! La mia filosofia non ha nulla in comune con la tua. Tu sei
un ateo, un bestemmiatore di Dio, un mentitore! La mia filosofia, invece,
dimostra delle verità prima sconosciute e non fa altro che elevare lo spirito
più vicino a Dio!”
V.
“E allora che mi dici delle accuse del Teologo?”
D.
“Tutta invidia! Sono solo congiure contro la verità della mia filosofia. Si sa,
gli innovatori hanno sempre fatto paura, ed io dimostrerò la falsità di queste
accuse!”
V.
“E come? Spiegalo a me! Dicono che il cogito
conduca allo scetticismo e che quest’ultimo, come sostiene il tuo adorato
Teologo, sia l’anticamera dell’ateismo… ergo…”
D.
“Taci, Maledictus! Tu non sei degno
di comprendere il mio cogito. Esso
non vuole condurre né allo scetticismo né all’ateismo, bensì ha l’obiettivo di
trovare un punto archimedeo su cui fondare l’intera conoscenza!”
V.
“Vallo a spiegare al caro Gisberto! Ormai faranno di tutto per condannarti! Ma
ora, caro Renato, siamo tra colleghi… a me puoi dirlo! Ma davvero sotto la
maschera non c’è nulla? Confessa! Io, a differenza tua, non ho mai avuto timore
di osare, mi son preso le responsabilità di quello che ho detto e fatto, tu
invece manchi di coraggio, di audacia!”
D.
“Io non sono un ateo, apostolo di Satana! Lo dimostrerò! Le mie prove
dell’esistenza di Dio sono le migliori, anzi, non fanno altro che fare
apprezzare ancor di più l’esistenza del Sommo! Io sono un umile servitore della
verità!”
V.
“Ma cittu! A mie nu ma faci fessa! Tutte le obiezioni che hanno suscitato le
tue meditazioni fanno ben comprendere che la tua filosofia è tutt’altro che
tranquilla, e si sa, i rivoluzionari non sono tanto amati oggigiorno!”
Con queste ultime parole Vanini uscì
dal fuoco e prese la mano di Descartes per trascinarlo nel fuoco.
V.
“Ormai è tutto compiuto, ti prendo prima io, prima che lo facciano loro!”
D.
“Non mi avrai mai, Aquila degli atei, lasciami! Ma dimmi, ma come fai a parlare
senza lingua?”
V.
“Come insegnò il buon Socrate, uccidendo un uomo non si uccide insieme a lui
l’idea che ha creato e portato in atto!”
Tra le sue urla e le risate di Vanini,
di soprassalto il filosofo francese aprì gli occhi sentendosi un bruciore alla
mano destra. Aprì gli occhi e la lancetta segnava le 6.30, il fuoco era ormai
quasi spento. Una voce lo fece sobbalzare, era la domestica.
Dm.
“Signore, ha dormito troppo vicino al fuoco! Stanotte si è agitato di
continuo!”
Descartes senza dire una parola si
accorse di avere una piccola bruciatura alla mano e immediatamente sedette alla
sua scrivania, pensando che era tutto molto chiaro.
D.
“Devo difendermi! Ora scrivo una lettera al caro Teologo prima che sia troppo
tardi! Vanini, non mi avrai mai!”
L’amore per la verità non annienterà
mai nessuna rivoluzione, sia che ci taglino la lingua o ci brucino una mano… il
pensiero non sarà mai né bruciato né annientato.
Irene D’Angelo e Rita Cardea