venerdì 10 febbraio 2012

Auschwitz, o della colpa universale


Dell’olocausto si può parlare in mille modi diversi, rifacendosi ora alle sue più laceranti ed evidenti conseguenze ora ad analisi più sottili. La recente “Giornata della memoria”, alla quale va riconosciuta una meritoria ed indiscutibile funzione comunicativa, divulgativa e d’approfondimento, come accade ogni anno non sfugge purtroppo alle strumentalizzazioni o alle trattazioni talvolta banalizzanti. Può essere allora interessante interpellare una voce, una grande voce ebreo-tedesca che si leva dall’orizzonte del dibattito filosofico del Novecento, quella di Theodor W. Adorno (1903-1969), del quale si possono rileggere alcune riflessioni che, al di là dello spessore speculativo, intrecciano in modo peculiare temi apparentemente distanti: la metafisica, l’olocausto, l’alterità.

Il concetto di metafisica ha attraversato la storia del pensiero filosofico occidentale, «è ciò per cui in fondo esiste la filosofia». Per quanto la metafisica abbia avuto come suo oggetto tradizionale le cosiddette «cose ultime», in realtà è decisamente problematico definirne la natura e i caratteri. In un primo senso, la metafisica può essere ricondotta a quelle «strutture forti e portanti, in una certa misura invarianti, della grande tradizione filosofica occidentale». A ciò va però aggiunto che la metafisica e il pensiero metafisico rappresentano anche il tentativo di creare una connessione, una mediazione, tra il livello del diveniente e del corruttibile e il livello dell’incorruttibile e dell’invariante. Rispetto a questo tema, Adorno ha sostenuto che non si vede come il pensiero, che è di per sé condizionato, possa costituire l’incondizionato e possa trasformarvisi. Ed è proprio in relazione al problema del rapporto tra condizionato ed incondizionato, concettuale e aconcettuale, identico e non-identico che inizia quell’«esperienza metafisica» che assume i tratti di un’esperienza del pensiero ai (e oltre i) limiti di se stesso, ma anche come pensiero dell’altro da sé.
La metafisica e l’esperienza metafisica rappresenterebbero tanto il tentativo (affermativo) di “salvare” il mondo quanto il tentativo (negativo) di pensare un oltre delle cose che si presenti come un non esserci del senso del mondo, ma che, lungi dal rappresentare un esito nichilistico e definitivo, apra, proprio in virtù di una mancanza, alla possibilità della speranza. L’esperienza metafisica assume allora i tratti di una possibile «esperienza della cosa», di difficile accesso e che tende verso un nucleo non concettuale del finito, vale a dire di quell’elemento che si sottrae alla sua assunzione nel concetto, dato che se così fosse verrebbe restaurato un primato: il finito diventerebbe assoluto, identico, universale.
Adorno precisa, però, che alla sua trattazione dell’esperienza metafisica è necessario approcciarsi in modo dialettico, vale a dire non assumendo l’immutabile come “vero” e l’effimero come “inferiore” e “spregevole”. Questa è una precisazione di non poco conto, tanto più che ad essa è connessa la tesi secondo cui le esperienze che l’uomo ha vissuto nel Novecento sono talmente peculiari, sono così profondamente drammatiche da non consentire più di mantenere invariati il senso ed il significato tanto della metafisica quanto dell’esperienza metafisica. Come segno di questa impossibilità di «sollecitare la positività di un senso nell’essere» (potremmo anche dire di un carattere affermativo e positivo della metafisica e della dialettica); come segno di ciò, si diceva, Adorno assume Auschwitz, vero e proprio simbolo universale della messa in scacco dell’idea di un «senso di ciò che è».

Adorno ha dedicato pagine molto intense e molto note alla tragedia di Auschwitz e alle dense riflessioni su di essa, segno evidente e tangibile della ferita ancora sanguinante che ha straziato i pensieri del filosofo ebreo-tedesco di Francoforte fino alla sua morte. Adorno pensa all’irruzione di Auschwitz nella storia come ad una svolta radicale; il mondo dopo Auschwitz non è più il mondo precedente ad Auschwitz, la cultura e l’arte sono “spazzatura”, sono un atto di barbarie, finanche la poesia non è più possibile. È questa la scioccante quanto nota denuncia di Adorno circa l’impossibilità di scrivere ancora poesie dopo Auschwitz, celebrità dovuta tanto all’icasticità e all’apparente paradossalità che le è propria, tanto alla conseguente lunga discussione che ha innescato, sia tra filosofi che tra letterati. L’affermazione adorniana non va però presa alla lettera. In una delle lezioni sulla metafisica Adorno infatti dichiarerà: «ammetterei volentieri, quasi come ho detto, che dopo Auschwitz non si possa più scrivere alcuna poesia – frase con cui ho voluto indicare il vuoto della cultura risorta –, d’altra parte, si debbono però ancora scrivere poesie, nel senso della frase dell’Estetica di Hegel secondo cui, finché tra gli uomini c’è una coscienza del dolore, ci deve essere appunto anche l’arte come forma oggettiva di questa coscienza».
Per Adorno, l’esperienza metafisica, il ruolo della filosofia o la degenerazione nella barbarie costituiscono tasselli di uno stesso mosaico. Nella quattordicesima lezione sulla metafisica Adorno tematizza l’assoluta impossibilità di una costruzione e affermazione di senso che non sia un attenuare ideologico «l’indicibile e l’irreparabile e l’irrimediabile con il gesto: bè, in qualche modo, in un misterioso ordine dell’essere, avrà pure avuto un qualche senso».

Adorno rifiuta con forza, quasi con rabbia, affermazioni di questa natura; esse hanno il sapore della beffa, dell’ulteriore offesa, dello scherno rispetto alle vittime e alle loro sofferenze. Parlare di metafisica senza tenere presente gli innumerevoli “Auschwitz” del mondo contemporaneo, senza tenere conto che dietro la libertà formale dell’uomo si nasconde la sua “nullità per il tutto” (dal momento che vige la logica della “sostituibilità”: «ogni uomo [è] sostituibile con ogni altro uomo e in fondo perciò è sostituibile senz’altro»); parlare di metafisica sottraendosi a queste considerazioni sarebbe, per Adorno, un parlare a vuoto. Nel mondo dopo Auschwitz non è possibile sottrarsi all’idea della colpa, di una colpa che si riproduce incessantemente in ogni uomo, all’idea che la nostra esistenza attuale, la nostra presenza, sono profondamente intrecciate con il dolore, la sofferenza e la morte di altri uomini.
In questa dialettica tra consapevolezza ed esistenza, colpa ed espiazione, la filosofia gioca un ruolo decisivo. Essa, che in virtù della sua distanza dall’esistente riesce a resistere alla parcellizzazione e alla reificazione, rappresenta «l’unica possibilità di riparare», nonostante la difficoltà – prosegue Adorno – di liberarsi dalla sensazione che proprio quella distanza se da una parte garantisce ancora la possibilità di sfuggire all’apparenza e all’illusione prodotte dalla coscienza reificata, dall’altra parte allontana la filosofia dalla “cosa” e, quindi, dalla verità. Ritorna, in un certo senso, quella necessità, quel dovere ineliminabile del filosofo, più volte richiamato, di aderire alla realtà, di accogliere ciò che essa produce e farsene carico.
La profondità della filosofia non deve offrire illusoriamente un senso ma, pur elevandosi al di sopra di ciò che semplicemente è, non può esimersi dall’inglobare ed accogliere «il common sense, la banale ragione umana». Tenere presente il “senso comune” costituisce la necessaria compromissione della filosofia con il mondo della vita; lo stesso pensiero metafisico, contrariamente a quanto tradizionalmente aveva fatto, scivola nell’esistenza materiale. Ad esso, ora, si dovrà richiede di non degenerare in chiacchiere come la “nuova sicurezza” e sciocchezze simili; di non essere apologetico e di non rinviare a un qualcosa come un possesso imperituro – ma di pensare contro se stesso; e ciò significa che si deve misurare con l’estremo, con l’assolutamente impensabile, per avere in genere ancora un diritto in quanto pensiero.
La filosofia non deve concedersi l’ennesima fuga dalla “carogna”, dalla “puzza” e dalla “putrefazione” bensì deve porsi in relazione negativa, drastica finanche sofferta con l’estremo reale. La filosofia deve riuscire a mantenere una certa distanza dalla “realtà miserrima”, una distanza che possa garantirgli la profondità ma, al momento opportuno, deve colmare quella distanza e stazionare nella dimensione del semplicemente esistente. Soltanto così essa perderà quel carattere eufemistico, falsamente ed inutilmente consolatorio e, perciò, ideologico che, per Adorno, è andata assumendo (o meglio, mantenendo). Soltanto così la filosofia potrà aiutare a «prendere coscienza del momento di falsità proprio là dove questa falsità si fraintende come verità, dove lo spirito maligno si fraintende come spirito».

Nel mondo che ha potuto produrre Auschwitz la metafisica e le sue “grandi parole” hanno perso ogni possibile legame con l’esperienza, rispetto alla quale sono divenute del tutto incommensurabili. «La metafisica è paralizzata, perché quel che accade ha spezzato al pensiero metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza»; Auschwitz rappresenta il fallimento della cultura, è l’emblema della caduta nella barbarie, è il simbolo di quell’indifferenza nei confronti della vita di ogni uomo verso cui la storia si muove; Auschwitz rappresenta la logica fatale dell’identità che ha annientato e soffocato ciò che è altro da essa, la non-identità.
Giacomo Fronzi