martedì 31 luglio 2012

Viaggio d’amore nel Salento (di Sossio Giametta)


 Bruxelles, 30 luglio 2012

Caro Mario,

eccomi tornato nell’umido e refrattario Belgio dopo le infuocate e fresche “cinque giornate” salentine! Qui, tornato alla calma e solitudine del mio studio, avrò modo di digerire il pasto da leone – di vita, bellezza, amicizia – fatto in Salento, a partire dalla sua perla, Santa Maria di Leuca, e dalla bella, signorile, ospitale, luminosa famiglia Carparelli: dalla tua famiglia e da te in particolare, artefice magico di questo mio magico viaggio in un mondo dorato, non solo per lo splendore delle terre e del mare, ma anche e soprattutto per il brillare del sole dell’umanità, civiltà e generosità, che accompagnano in Salento ogni vita e attività, a quel che attesta la mia esperienza pregressa e confermata alla grande da queste mie “cinque giornate”.
Il Salento costituisce per me un miracolo: in nessuna cosa moderna, tecnica e tecnologica, imprenditoriale, artistica e letteraria, lo trovo manchevole di qualcosa, anche nell’eleganza e mondanità; ma nello stesso tempo ha conservato tutta la serenità, l’umanità, lo slancio e la generosità che si usa collocare nei tempi andati, in quanto scarseggiano sempre più nelle altre regioni d’Italia, soprattutto al Nord.
Il miracolo dei miracoli è proprio l’imprenditorialità. Ho conosciuto più di un grande imprenditore, e in queste cinque giornate uno in particolare, Antonio Quarta, della “Quarta Caffè”, che realizzano un’armonia tra impresa e lavoro inconcepibile altrove, dove impresa e lavoro sono appunto l’una contro l’altro armati.  D’altra parte Antonio Quarta, non sordo a nessuna umana esigenza dei suoi dipendenti e collaboratori, reinveste gli utili sul territorio, creando sempre nuova prosperità e posti di lavoro. Tutti hanno calorosamente festeggiato nei locali dello splendido Club Azzurro, la sera del 27 luglio, il premio ricevuto dalla ditta Quarta dall’Associazione Regionale Pugliesi di Milano come ambasciatrice della Puglia nel mondo. Negli spazi antistanti l’albergo si sono avvicendati cerimonie (assegnazione ai principali collaboratori di targhe-ricordo), canzoni e intrattenimento, sfilate di superbe modelle ungheresi, balli scatenati (la “pizzica” salentina), tra cui quello trasfigurato, irresistibile e travolgente della sacerdotessa di Tersicore Serena D'Amato. Con lei ha poi ballato a lungo lo stesso Antonio Quarta che, innamorato della pizzica, prende da lei lezioni due volte la settimana. Ma nel pubblico, quante persone belle e amabili, alla mano, civili, aperte alla vita e agli altri!...
Un’altra grande scoperta che devo a te, caro Mario, è stato Fernando Proce, la voce più famosa della radio italiana. Affezionatissimo al “maestro” che l’ha formato e portato alla professione e al successo, Marcello Schiavano, un uomo dall’aria contadina, dal cranio rasato e insomma dall’apparenza ultra-popolare, a parte uno sguardo sciabolante straordinariamente espressivo, una “bestia” di umanità che trasuda generosità da tutti i pori, Fernando è un ragazzone che solo a vederlo ti mette di buon umore, che trasmette un messaggio di umana robustezza, di maschio vigore, ma insieme di contenuto entusiasmo, di misura, raffinatezza e grazia. Sentirlo alla radio RTL 102.5, dove trasmette ogni mattina dalle 9 alle 11, con la sua sempre attiva fantasia e il suo fluido, spiritoso e accattivante eloquio, in profondità serio, è una cura ricostituente, un mattutino messaggio di umanità rasserenante. Nello “sperduto” paesino di Racale, attaccato, caro Mario, alla tua Ugento, ha costruito uno studio di ultima modernità, da cui si collega, attraverso Radio Salentuosi, a tutte le stazioni radio dell’Italia e del mondo.
Come è stato bello, caro Mario, pranzare coi tuoi genitori, con Marcello, Fernando e altri amici giovani e meno giovani, in quel luogo di delizie che è la trattoria Terra Masci di Rino Cordella, sempre pronto a soddisfare i desideri dei suoi clienti, che su mia richiesta mi ha preparato un eccellente polpo in pignatta e una splendida parmigiana di melanzane, senza parlare dei sauté di cozze, degli spaghetti all’aragosta e di altre leccornie che arrivano quasi da sole sulla tavola, per prezzi più che abbordabili, quando non è il trattore stesso a offrire magari a dieci avventori, come anche è accaduto una volta, e come non era mai accaduto e mai accadrà altrove, e meno che mai in Belgio, dove vivo da quarantasette anni!
Ma per una volta, sabato 28, abbiamo lasciato Rino per gustare le delizie di casa Ottino, affacciata sullo splendido porto turistico e sul glorioso circolo velico “Yacht Club Leuca”, di cui sei segretario. Lì l’affettuosa e generosa Maria imbandisce i suoi famosi piatti, che si tratti della genovese o, come questa volta, delle orecchiette con le rape, che nella sua forma vellutata non avevo mai gustato prima. Tutto ciò mentre il gigante buono e cantautore Enzo Ottino (per te Enzottino) – che però dovrebbe chiamarsi, anche per i suoi miti ma frequenti e rumorosi ruggiti all’indirizzo della tenera Maria (estremo lusso da lei concessogli di un assoluto amore), Ottone (Enzottone), se i nomi, come sostiene Socrate nel Cratilo platonico, dovessero esprimere l’essenza delle cose – ci fa sentire l’ultima lullaby da lui composta, da inserire tra i venti pezzi dei due CD che sta preparando.
Ma già il primo giorno, 25 luglio, abbiamo in serata lasciata Leuca alla volta di Tuglie. Qui infatti ci aspettava una bella manifestazione nell’ottima biblioteca comunale, in cui espongono attualmente due bravissime, ispirate e mature pittrici, Francesca Testa e Gabriella Torsello. Su in alto, in terrazza, un pubblico numeroso e attento si preparava ad ascoltare il famoso dantista Luigi Scorrano, che presentava l’ultimo libro di poesie, “Il passo della notte”, di Elio Ria, un uomo e poeta di un candore, di uno slancio e di una generosità assoluti, tutto aperto, con un eterno sorriso, alla vita e alla vita degli altri. Dopo che, invitata al tavolo del presentatore e dell’Autore, ha parlato Gabriella Torsello, un cui quadro è riprodotto nella copertina del libro, ho avuto la sorpresa di ascoltare i più informati e generosi riconoscimenti fatti ai miei studi e un cordiale invito a intervenire con qualche mia parola per illustrare il mio ultimo libro-intervista, Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia, che così dunque è stato a sua volta presentato al pubblico di Tuglie.
Naturalmente non sono mancati i bagni nelle limpide acque di Leuca. Siamo andati, la mattina tardi, al Samarinda, ottimo, moderno e attrezzato stabilimento balneare del lungomare, salutati dal dolcissimo sorriso di Roberta Pirelli, la giovane proprietaria attorniata da uno sciame di collaboratori che, pronti a scattare a ogni desiderio espresso dai clienti, mettono tutti a loro agio e li fanno sentire ospiti graditi. Lì pullulano, caro Mario, le bellezze salentine e i tuoi amici, tutti interessanti. Peccato non aver potuto, a causa del fascino irresistibile di Rino, anche assaggiare le squisitezze del ristorante, di cui si dice un gran bene. Ma sarà, spero, per la prossima occasione.
Uno spettacolo grandioso è stato anche, sabato sera, la festa offerta da Pieluigi Celli, direttore generale (fra tanti altri titoli) dell’università Luiss di Roma, nella sua grande villa con piscina tra Specchia e Taurisano. È stato un peccato, caro Mario, arrivarci quando la cena, chissà come squisita e succulenta, era terminata. Ma c’eravamo attardati a Taviano, dove si era appena svolto l’avvenimento per il quale principalmente mi hai fatto venire a Leuca: la presentazione del mio libro presso il Vico degli scettici, ospiti de “La Busacca”, un vivaio di attori guidato e gestito dal magnanimo e famoso attore Francesco Piccolo. Lì, davanti a uno sceltissimo pubblico – e mi piace ricordare la graziosa Stefania Bocco per l’appassionata attenzione dedicata alla manifestazione – ho cercato di dare al pubblico chiarimenti fondamentali per capire autori e avvenimenti capitali della nostra storia e della storia dello spirito europeo, in ciò aiutato e stimolato da due straordinarie ragazze, salite con me in palcoscenico: una studentessa ventunenne, Erika Sorrenti e una laureata ventiquattrenne, Simona Apollonio. Erika mi ha fatto, con un discorso straordinariamente preciso, articolato e maturo, una domanda importante su Schopenhauer, e, Simona, ribollente di sentimento e di passione nietzschiana sotto la soavità del suo viso d’angelo fiorentino, mi ha invece fatto, dopo un discorso di pari maturità e acutezza, una domanda su Nietzsche. Un pubblico così serio, autentico e motivato mi ha ispirato e spinto a dare il meglio di me, e spero che il generoso ”investimento” fatto col suo invito da Francesco Piccolo non sia stato inutile.
L’ultima bellissima cosa, caro Mario, delle tante che ho vissute e qui descritte sommariamente, è stata la festa dei bambini organizzata da tua sorella Saveria, per il compleanno della sua prima bambina, Laura, nei meravigliosi spazi in vista del mare della villa dei tuoi. Che spettacolo esaltante, vedere tanti bambini gioire insieme e inconsapevolmente apprendere, attraverso il divertimento in comunione, quelle che diventeranno poi la socievolezza e la civiltà delle persone adulte! Che spasso vedere tanti bambini reagire armoniosamente agli incitamenti della brava animatrice, brava anche per il costume alla Disney indossato per l’occasione! Che bello, anche, veder poi tutti i bambini assisi ai piccoli tavoli per quattro approntati in un apposito “ristorante dei bambini”! E vederli infine riuniti, con mamme e papà, intorno al tavolo accanto alla villa per il taglio della torta. Non è la prima festa grandiosa a cui assisto nella Villa Carparelli, ma questa è stata certo la più fresca e graziosa, e in essa c’era certamente, come già alla festa di Celli, buona parte del gotha salentino.
Grazie a tutti, caro Mario, grazie a tutto il Salento, ormai famoso nel mondo e sempre più frequentato dal turismo internazionale, ma grazie soprattutto a te, alla tua abnegazione, con la quale hai minutamente e pazientemente organizzato il mio viaggio, l’ospitalità e i lunghi accompagnamenti più notturni che diurni, prima da Bari a Leuca, poi da Ugento a Brindisi, a cui hai immolato il tuo sonno e le tue pur urgenti occupazioni. Possano la vita e la fortuna compensartene, con qualcosa di più del mio semplice ringraziamento e tenace affetto, per te e per i tuoi e miei cari.

Sossio              

domenica 22 luglio 2012

La Notte di Elio Ria


Sorgente intima della reminiscenza ed esperienza onirica, itinerario della mente verso l’infinito.
È questa la Notte di Elio Ria. Una notte in cui, nel travaglio dello sforzo spirituale e nella proiezione in un abisso indistinto di sogni e realtà, le parole viaggiano su un continuum di immagini, che traducono in realtà poetiche e drammatiche la sostanza cangiante e sfuggente del notturno. Nei componimenti si coglie un’eco silenziosa del cielo notturno degli Egizi, un mondo in cui “la gente vi cammina con la testa in giù e i piedi in alto”.

E in questa ubriacatura di pensieri non poteva mancare la Signora del cielo delle tenebre, la protagonista misteriosa della ricerca del significato, la Luna! Lontana dalle metamorfosi licantropiche e dai movimenti convulsivi di pirandelliana memoria, la divina Selene del nostro poeta ripercorre, con passi più ottimistici, i ritmi della silenziosa luna leopardiana. E non è casuale che, a volte, un bambino interpreti il ruolo di guida e di avanscoperta delle verità tipiche dei nomadi passi del pastore errante dell’Asia.
Numerosi sono i riferimenti alla realtà spazio-temporale, che spezzano i connotati mistici dell’infinito: ‹‹La luna è lì / non tonda / abusata a ovest / il mare senza crepe / acquietato / scalpelli di vento… / compiuto è ormai il giorno / giunge inatteso…/ l’indizio di una notte››. La presenza frequente di “indizi”, molto spesso attinti dai paesaggi di un remoto Mediterraneo, offre la possibilità al lettore-viaggiatore di non perdere di vista l’insieme e di non perdersi nelle strade del buio che avvolge la fatica della ricerca.
A volte la ricerca si fa incalzante, sparuti segni di interpunzione significano un flusso continuo di pensieri reconditi. Poi nuovi colori, nuove sensazioni, nuovi suoni impediscono che la “notte” ceda il “passo” all’oligofrenia del cammino del poeta: ‹‹Dondolano i versi / sui capelli di zenzero / un cielo s’accascia››. Il dondolio, la condizione fluttuante di chi si pone domande di senso, rendono ragione alla vicenda poetica, “la più grande delle illusioni”¸ avrebbe detto Foscolo.
E in tutto questo susseguirsi di emozioni universalizzanti condite da un linguaggio a volte immaginifico e che non di rado cede a tentazioni dionisiache, Elio Ria offre una dimora nictomorfa al poeta che erra nella propria mente. Novalis riconosce che ‹‹il tempo della luce è misurato, ma il regno della notte non conosce il tempo né lo spazio››, quindi il luogo dell’anima ideale per la creazione poetica. Così anche i poeti della gente hanno accesso alla contemplazione dell’ideale e alla facoltà di tradurlo in versi, in parole, tutte al loro posto, come le note di una musica.

È la melodia dell’apeiron, verso cui il Nostro non vuole tendere risalendo ad immagini archetipiche o a schemi marcatamente antropologici: Elio Ria dà voce alla notte della gente con le peculiarità della dimensione quotidiana nelle cui viscere egli indaga i significati più veri e più profondi.
Onorando questa missione, il poeta morrà e vivrà in un infinito ciclo di rinascita e trasformazioni.
 Chi diventerà? Chi sarà? In quale altro mondo troverà dimora? Per un attimo si scorge la possibilità che una dimensione alternativa esista, ed è quella “Prima del principio”: ‹‹Non ci sono pieghe, né indizi di aria / ma l’alba di un dio è ancora oscurità / il cielo è fin troppo infinito all’orizzonte››.
Sospeso tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo si muove Elio Ria. E chissà se il mirabile inganno poetico della “sua” notte non continui anche quando l’incantesimo del sogno svanirà.
Luigi Calsolaro e Manuel De Carli

Recensione a: Elio Ria, Il passo della notte , Lupo Editore, 2012


lunedì 16 luglio 2012

Benedetto Croce, Ultimi saggi

Nell’edizione nazionale (Bibliopolis) delle opere di Benedetto Croce, vanno in libreria gli Ultimi saggi, a cura di Massimo Pontesilli, che in una lunga Nota ne circostanzia la composizione e ne aiuta la comprensione (pagine 592, euro 35). Gli inglesi hanno due parole per dire “ultimi”: latest (i più recenti) e last (gli ultimi). Noi ne abbiamo una sola, e ciò fa sì che Croce abbia dovuto spiegare nell’Avvertenza che gli Ultimi saggi non erano gli ultimi, come credeva che sarebbero stati, perché molti altri ne erano seguiti in altri tredici anni di attività. Egli lasciava però il titolo, per “l’agevole ricerca e citazione degli scritti stessi”.
In questa Avvertenza Croce commenta brevemente le tre parti del libro: I. Estetica; II. Logica ed etica; III. Eternità e storicità della filosofia. I contenuti sono dunque vari e toccano tutte le discipline da Croce trattate, sicché inoltrarsi in questi saggi è un po’ come inoltrarsi nel mare, quando fa caldo come adesso, traendone il rinfresco e la voluttà dell’immergersi in un elemento limpido e delizioso, che accoglie e risana dai morbi di cui è ammorbata l’arzigogolata e pretenziosa filosofia attuale, dove gli autori cercano di imporsi al lettore a forza di brillanti variazioni, pseudomisteri e toni oracolari, invece di accoglierlo, ragionare con lui pacatamente e guidarlo da amico sugli impervi sentieri della ricerca filosofica, così come fa Croce. La ricchezza e varietà di questo libro non devono dunque spaventare: sono doni preziosi offerti graziosamente: quante cose chiariscono, che tanti desiderano capire! In fondo a questi così diversi scritti scorre, come un vasto fiume, un senso unitario ed epocale in cui essi confluiscono appunto come affluenti di un fiume.

Ora, qual è questo senso unitario ed epocale che scorre maestosamente sotto tutte le opere di Croce? Croce lo ha spiegato e lumeggiato in tutti i modi ed esso splende nelle sue opere come un sole. Ma è stato mai capito? È stato mai veramente capito Croce? Croce è stato certo commentato a iosa, in bene e in male, ma è stato più frainteso che capito, sicché si capisce che Nietzsche, per esempio, a un certo punto non volesse più essere conosciuto, dato che ciò avrebbe significato essere frainteso. Frainteso è stato Croce, tanto per cominciare, nel suo famoso saggio Perché non possiamo non dirci cristiani. Esso è stato infatti inteso come una correzione di buonismo e di calore all’arida e fredda laicità altrimenti sostenuta, mentre rappresenta la pietra miliare di tutta la missione filosofica di Croce, che comprende sì l’amministrazione e trasformazione della grande eredità degli idealisti, ma non si limita ad essa. Croce non è un protagonista dell’età moderna, è l’apostolo di essa. Egli ha colto la più profonda esigenza che il tramonto sostanziale del cristianesimo, consumatosi alla fine del medioevo, comportava: il rinnovamento della spiritualità cristiana in altra forma, cioè in forma laica ma non per questo inferiore per ispirazione ed entusiasmo allo spirito cristiano. Perché, è chiaro che lo tsunami laico, critico-scettico-distruttivo, è il primo maxifenomeno provocato da tanta rovina. Montaigne e gli altri moralisti francesi ne sono chiari esempi. Ma l’uomo ha un bisogno ineludibile della più alta spiritualità, diciamo pure che non può vivere senza religione. Esauritasene una, deve succederle un’altra. Ma per edificare una nuova religione non basta criticare l’antica. Non basta capire, come solo Croce ha così ben capito, i progressi in senso laico che gli eventi capitali della storia dell’epoca rappresentano, come quando per esempio dice: “il Rinascimento cercò l’antichità greco-romana e trovò la realtà e la natura, e la Riforma cercò il cristianesimo evangelico e trovò il libero pensiero e la critica”. Occorre passare a una religione che abbia la stessa potenza spirituale di quella mitologica antica, il che non era e non è ancora oggi un compito facile.
Il primo a varare una vera e propria religione laica, immanente, la religione dell’amore per la vita caduca, per “l’oro prezioso dell’essere”, come dice un poeta sconosciuto (Antonio Di Nola dell’università di Salerno), era stato Nietzsche, in particolare nello Zarathustra. Ma Nietzsche non si era reso pienamente e fermamente conto di questa sua altissima missione, che dava senso unitario all’età moderna e costituiva l’approdo del processo che fino a lui si era svolto sui due versanti, quello laico-scettico appunto (Montaigne, Spinoza ecc.) e quello conciliante col passato (Cartesio, Malebranche, Leibniz, Hegel ecc.); poi, incattivitosi col cristianesimo, era sceso ad affrontarlo in un dubbio duello personale, invece di proseguirne il superamento sull’alto cammino dell’affermazione tragica zarathustriana.

Questa nuova religione è il destino dell’Occidente. Ma essa non si afferma da sola. Si afferma grazie ai suoi apostoli, alcuni dei quali sono stati Bruno, Spinoza, Goethe e Bertrand Russell. Ma l’apostolo di essa, preminente per chiarezza e sicurezza di sé, è stato appunto Croce, con la sua religione dello Spirito, dei valori nel loro continuo farsi storico. Ciò soprattutto egli dice nel suddetto saggio (Perché ecc.) e ciò ribadisce in questi Ultimi saggi, in particolare nelle due parti di Le due scienze mondane, l’Estetica e l’Economica, e nell’indirizzo inviato al sesto Congresso internazionale di filosofia di Cambridge, Mass., nel settembre 1926, Punti di orientamento della filosofia moderna.
Ma affluenti di questo gran fiume sono, come abbiamo detto, tutti gli altri saggi, di esposizione e delucidazione dei tanti problemi che questo maestoso movimento moderno ha suscitato sul suo cammino, e capolavori artistici oltre che filosofici sono certe trattazioni, come per esempio La grazia e il libero arbitrio, L’apoliticismo (la questione dell’intellettuale organico), Ciò che la filosofia non deve essere: la filosofia tendenziosa, mentre esempi preclari della sua generosità e giustizia sono altri saggi, come la rivalutazione dell’estetica di Schleiermacher e le note in margine al “Vom Kriege” di Clausewitz. Esempi della sua energia combattente sono infine la sua avversione alle teorie del comico, alla filosofia della natura, all’unità panlogistica di Hegel, alla filosofia accademica e alla figura pagliaccesca del “filosofo” di vecchio stampo. Anche in filosofia, credetemi, si può andare al mare a rinfrescarsi. Andate, cari lettori, al mare con Croce. 


Sossio Giametta


sabato 14 luglio 2012

Che cos’è la morale e qual è il suo fondamento? Risponde Sossio Giametta


Da quando Nietzsche scorse nella morale e fin negli ideali ascetici antropomorfismo e autoconservazione, non cessano, contro la depressione nichilistica che ne è seguita, i tentativi di ripristinare la morale su altre basi. Si è così venuto a creare quasi un mercato delle morali. Da un lato la morale è sentita come un’esigenza insopprimibile nella vita dell’individuo e della società, dall’altro i tentativi si moltiplicano perché nessuno riesce a vincere e convincere. Nella speranza di contribuire a una chiarificazione del problema, ci permettiamo di offrire la seguente riflessione. Qual è il politico di più alta moralità? Quello che fa il bene del suo paese. E qual è il bene del suo paese? Primeggiare sugli altri con la potenza (gli Stati sono anche detti “potenze”), ossia far trionfare l’interesse (l’egoismo) del proprio paese. Dunque la moralità consiste qui nel fare per la collettività e non per sé ciò che normalmente l’individuo fa per sé. Ma la collettività, lo Stato, è un grande individuo in concorrenza con gli altri grandi individui, allo stesso modo degli individui normali. Fra essi si riproduce quindi l’homo homini lupus. Ma perché un “piccolo” individuo serve un grande individuo? Non c’è dubbio: per ingrandirsi a sua volta. Cioè per realizzare quella parte di sé che si può attuare solo con la realizzazione della collettività di cui è espressione. Si tratta ancor sempre di utilità e di egoismo, certo. Ma sentire come esigenze personali le esigenze della collettività è anche quello che gli uomini chiamano grandezza. C’è pure un’altra collettività, di cui tutti siamo espressione: è l’umanità o la specie; e ce n’è un’altra ancora, quella di tutti gli esseri del creato. Ma se uno si sente partecipe di queste più che di quella statale, allora la politica non è il suo posto: deve – se è vocato alla grandezza – seguire le vie della filantropia, della poesia, della musica, della filosofia; deve fare, più che il politico, il sacerdote, il missionario o il santo. Ma dei politici ci sarà sempre bisogno. Anche poeta musicista filosofo sacerdote missionario e santo perseguono fini personali, il loro utile. Nietzsche, per esempio, strillava che i problemi della causalità gli stavano molto più a cuore della causa col suo editore (finita male per lui), cioè la sua felicità o infelicità dipendeva più dalla causalità che dalla causa. Ma questo suo egoismo, come quello del poeta, dell’artista, del musicista, del filosofo, del prete, del missionario e del santo, combaciava con quello dell’umanità e prevaleva su quello privato. Al punto che – è sempre lui che parla – anche annunziare una verità ferale, luttuosa, se è una scoperta filosofica, dà felicità. Proprio Nietzsche, paladino di un radicalismo aristocratico, ha insegnato ad accettare la realtà e gli uomini con difetti e vizi, perché questi cospirano con pregi e virtù all'affermazione della vita. E mentre da un lato, come un nuovo Machiavelli scopriva dietro le pretese spirituali l’interesse personale, fisiologico, dall’altro insegnava a riconoscersi e ad accettarsi nella propria realtà senza schifiltosità idealistiche e romantiche, in ciò operando dunque in senso rivoluzionario. Aggiungeva, lui affossatore del cristianesimo, due comandamenti al decalogo cristiano: 1) Non si deve solo scontare la colpa altrui (come Gesù), ma anche assumerla su di sé; 2) Non si deve causare vergogna agli uomini. Anche la più alta moralità, dunque, che ha origine nella solidarietà biologica, non può fare più che promuovere l’umanità, ossia l’utilità della specie umana. La specie umana è un individuo ancora più grande dell’individuo-Stato, un grandissimo individuo tra altri grandissimi individui, le altre specie, con cui è a sua volta in concorrenza. Il prosperare di una specie comporta lo sfruttamento delle altre. La vita si nutre di se stessa, è una piramide in cui quelli che stanno sopra si nutrono di quelli che stanno sotto, salvo eccezioni; e quelli che stanno sopra si nutrono gli uni degli altri, in lotte civili o guerre guerreggiate, per destino fatale e incoercibile. Dunque anche nella più alta moralità non si va oltre l’umano, si tratta pur sempre di egoismo, sebbene l’egoismo della grandezza, che richiede abnegazione, sia nobile e quello privato ignobile. Ma si tratta sempre di lotta per l’utilità, la potenza e la sopravvivenza e non di qualcosa di trascendente.                      

Sossio Giametta


giovedì 12 luglio 2012

Vanini e la teologia economica bocconiana

Viviamo in un’epoca del coraggio oppure no? Io credo che se l’epoca dei greci era l’epoca del coraggio per eccellenza e la modernità invece tende a essere un’epoca centrata su altre virtù, a voler essere benevoli, oggi invece viviamo in un’epoca totalmente post-eroica in cui del coraggio non c’è più nulla. Viviamo nell’epoca in cui trionfano altre virtù, se volete, in cui trionfa l’adattamento, in cui trionfa la rassegnata accettazione.
Basta fare anche una rapida incursione nella costellazione semantica della filosofia oggi più in voga e vi accorgerete che trionfano quelle che sono state giustamente definite le “passioni tristi” con stigma spinoziano: disincanto, cinismo, rassegnazione, accettazione dell’esistente. Mai coraggio, naturalmente. Mai coraggio.
Viviamo appunto nell’epoca anti-eroica in cui il più grande imperativo, il più grande credo della nostra epoca è quello di accettare l’esistente così com’è. Potremmo dire: il comandamento del nostro tempo è quello “non avrai altra società all’infuori di questa”.Quindi viene destrutturato il presupposto stesso del coraggio, che è quello di agire, nonostante tutto, in vista di qualcosa di diverso e di migliore.
Gli intellettuali, oggi, altro che essere intellettuali vaniniani o fichtiani! Sono intellettuali totalmente organici al capitale, direbbe Gramsci, totalmente organici alla strutturazione reale e simbolica dell’esistente.
Oggi la funzione di apologetica dell’esistente non è compiuta da sacerdoti o monaci: è compiuta dagli operatori dei mass media, dai giornalisti, dagli intellettuali che duplicano incessantemente a livello simbolico la realtà così com’è, presentandola appunto con i tratti degl’intrascendibilità, della fatalità, della destinalità e così via.

Il mondo capitalistico, come sapete, non pretende mai di essere il migliore possibile, ma semplicemente nega in partenza la possibilità di alternative, questa è la contraddizione: convince le nostre menti di essere in qualche misura il solo mondo possibile. Autoelimina le possibili alternative. Questo è il grande problema dell’ideologia come lo identificava Marx. Cioè l’ideologia rende naturale ciò che è invece storico e sociale. Questo fa. Fa esistere la borsa, le leggi, le istituzioni economiche con lo stesso statuto ontologico di montagne, alberi, di cose della natura che non possono essere criticate né tanto meno trasformate.
Per cui allora qual è il coraggio fondamentale, oggi, nell’epoca post-eroica, nell’epoca della viltà generalizzata, potremmo dire. Dal mio punto di vista, il coraggio, oggi, sta anzitutto nel riprendere la funzione critica della filosofia, nel ritornare a Vanini, se volete; nel ritornare a Fichte e a Spinoza, i più grandi pensatori moderni del coraggio, ma poi anche tornare ai greci e alla civiltà del coraggio.
Appunto, il grande gesto del coraggio oggi deve essere quello di dire di no, di cercare una ulteriorità nobilitante rispetto all’esistente.
Una prima forma di coraggio - perché bisogna sempre partire dalle cose piccole per poi avere delle trasformazioni in grande - secondo me, una grande forma di coraggio ,oggi, e mi rivolgo soprattutto ai giovani, è quella di iscriversi a filosofia all’università, ad esempio. Perché ci vuole coraggio, appunto. Perché fin dal liceo venite continuamente bombardati con una forma di terrorismo psicologico per cui “chi si iscrive a filosofia non trova posti di lavoro, fate economia!”, cioè la teologia del nostro tempo.
La teologia oggi non è quella che appunto combatteva Vanini. Se oggi Vanini fosse in vita, secondo me, combatterebbe la teologia economica bocconiana nei governi tecnici. Quella è la teologia: il monoteismo del mercato, i mercati, le borse, in cui appunto stiamo di fronte alla borsa come se fosse qualcosa che non abbiamo prodotto noi. Voglio dire: l’abbiamo posta noi, possiamo anche toglierla.
Viviamo in maniera ineluttabile le leggi che abbiamo posto noi in essere. Questo è il paradosso del feticismo, come lo chiamava Marx. Per cui chi si iscrive a filosofia oggi fa già un gesto di grande coraggio, di grande rifiuto integrale di questo orrore, di questa “compiuta peccaminosità”, come la chiamava Fichte, in cui siamo situati. Iscriversi a filosofia già è questo, è già mettere in discussione l’intrascendibilità dell’esistente. Per cui appunto il coraggio è sempre coraggio filosofico e si inizia appunto a essere coraggiosi quando si fa filosofia.
*
Sugli intellettuali si può fare un discorso più ampio, perché li vediamo operativi continuamente intorno a noi. E mi piaceva soprattutto ricordare a questo proposito la definizione che degli intellettuali dava il grande filosofo e sociologo francese Pierre Bordieau il quale diceva che “gli intellettuali sono la parte dominata della classe dominante”. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che gli intellettuali sono in qualche misura dominanti, perché hanno un capitale culturale, quindi sono al di sopra di chi non ha nulla, di chi è ignorante, potremmo dire, ma sono anche dominati, all’interno della classe dominante, perché devono vendere il loro capitale culturale appunto ai capitalisti al potere. E quindi questo capitale culturale non può mai confliggere con l’ordine del potere funzionale al mantenimento dell’apparato capitalistico. E quindi ecco svelato l’arcano: deve sempre essere in qualche misura, interno, organico a questo sistema.
A me quello che stupisce sempre quando penso al processo di Vanini, ma anche di Bruno, è una cosa. Ovviamente mi stupisce moltissimo il trattamento: uno che pensa certe cose viene perseguitato e messo a morte. Un’indignazione morale totale quella che suscita in noi questo. Però penso anche a quanto fosse debole un sistema politico di quel tipo, che doveva mettere a morte chi la pensava diversamente. Oggi invece uno può pensare tutto quello che vuole. Può pensare anche che viviamo nel peggiore dei mondi possibili, che il capitalismo procura asservimento, precariato, schiavitù salariata. Può dirlo anche in pubblico, tanto non gli capita nulla. Perché questo è il totalitarismo perfetto. È quello che assimila immediatamente anche la critica. È quello che metabolizza la critica e che potremmo dire, come già diceva Adorno, “rende merce anche la critica stessa”.
Non a caso abbiamo libri, compresi i miei, lo dico subito, che sono ipercritici verso il capitalismo e vengono messi in commercio dal capitalismo stesso. Questo è il totalitarismo perfetto: morbido, flessibile, accomodante, accogliente, permissivo. Ci pone tutti nella condizione dei carcerati che amano la cella in cui sono imprigionati.


Questo deve dire la filosofia oggi. Deve dire che questo è il mondo della “compiuta peccaminosità”, come diceva Fichte, o il mondo dell’”animalità dello spirito”, come diceva Hegel. Ogni filosofia che dica che questo mondo, tutto sommato, non va male, come le filosofie di certi intellettuali che scrivono su “Donna Moderna” anche, che dicono che questo mondo è il mondo della tecnica - perché loro parlano sempre con frasi heideggeriane -  è terribile, ma è il solo possibile, non possiamo farci nulla. Ogni tentativo di cambiarlo, fallisce. Mi viene in mente quella canzone degli anni ‘60 di Bobby Solo: “è stato bello sognare, non c’è più niente da fare”.
Questi intellettuali sono i peggiori, secondo me, perché fanno la critica radicale del mondo in cui vivono e poi la disinnescano dicendo che è il solo possibile. Lukács li chiamava già a suo tempo “gli intellettuali del grande hotel abisso”, quelli che stanno nel comfort delle stanze dell’albergo, ogni tanto si affacciano sull’abisso e poi si ritraggono impauriti nell’agio delle merci e dei comfort del loro hotel. Eccoli qua gli intellettuali, voilà sono questi.
Oggi si tratta di riscoprire il coraggio della “parresia”, come la chiamava Foucault, cioè sbattere la verità in faccia al potere. Ma questo non basta, ci vuole poi la conseguente azione che deve seguire a questa “parresia”, cioè “agire agire agire”, come diceva Fichte, agire socialmente per cambiare lo stato di cose.
Non ci si venga a dire che il mondo del precariato, il mondo senza futuro, il mondo che ci condanna all’orizzonte unico della merce, in cui tutto diventa merce anche a livello immaginativo e simbolico – debiti e crediti nelle scuole, l’azienda Italia, il capitale umano e queste cose qui – sia un mondo tollerabile. È il mondo della totale peccaminosità e come tale deve essere denunciato e poi contrastato in maniera politica, secondo me. Per questo lo ripeto: Vanini, se fosse vivo, cosa farebbe? Come manifesterebbe il suo coraggio? Dicendo di no al potere ovvero al monoteismo idolatrico del mercato, la dittatura finanziaria, il fanatismo dell’economia.
Diego Fusaro



Trascrizione parziale dell’intervento di Diego Fusaro durante la presentazione del suo libro “Coraggio” (Raffaello Cortina, 2012), svoltasi il 22 giugno 2012 a Taurisano (Le), presso la casa natale di Giulio Cesare Vanini. La trascrizione è stata eseguita da Mario Carparelli e rivista da Diego Fusaro.