martedì 10 gennaio 2012

«Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca»


Nel saggio su L’essenza del linguaggio, Martin Heidegger, in diversi passaggi, si sofferma sulla lirica di Stefan George (1868-1933), in particolare su un componimento del 1919 dal titolo Das Wort (La parola). Il verso finale di questa poesia, «Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca», stimola l’attenzione del filosofo, il quale in esso riscontra un esempio di come il poeta riesca a portare a parola, in modo autentico (che equivale a dire poetico), l’esperienza che fa del linguaggio. Dove la parola manca, dove essa viene meno, non può esserci “cosa”, dal momento che quest’ultima attende d’essere nominata dalla parola. Il linguaggio poetico, dunque, ci dice qualcosa di più, rispetto al linguaggio comune ed ordinario, del rapporto tra parola e cosa, del rapporto tra essenza del linguaggio ed essenza delle cose. La poesia di George, si potrebbe dire, è segnata da questa incessante ricerca che ha, come suo fine e come sua fine, l’essenza, l’anima, lo spirito.
Nelle liriche di George, poeta che come pochi altri ha infiammato la gioventù tedesca d’inizio Novecento, ciò che emerge, in prima battuta, è l’abissale mistero e l’incolmabile distanza tra l’autore ed il lettore. I suoi versi sono come «sfoghi a denti stretti, contro la propria volontà, confessioni intime, sussurrate nel buio di una stanza, nascondendo il volto». Accostarsi alla sua poesia, così profondamente e drammaticamente intimistica, produce una sorta di apnea che ci tiene costretti sulla sua soglia. Nonostante l’attività di George sia antecedente all’anno di svolta su cui ha posto l’attenzione Harrison (il 1910), la “questione spirituale” è rintracciabile già nel poeta tedesco, se è vero che la sua può essere considerata una ricerca del senso supremo che supera e sovrasta il mondo delle cose.
La lettura delle liriche di George, come ha scritto György Lukács, ha poco a che vedere con la produzione di un «sentimento di massa», poiché questi canti «furono scritti – idealmente – per una persona; soltanto un uomo può leggerli, appartato e solo». È una scrittura della (e nella) solitudine, tanto nel senso di una solitudine che si fa parola poetica quanto nel senso di una parola poetica che esprime e comunica solitudine. Una intonazione chiaroscurale e sfocata, nella pur luminosa galleria quasi impressionistica di immagini, attraversa le pagine di George. Essa attrae nel magma delle proprie in-definizioni il lettore solitario, l’uomo che vive al di fuori della trama dei legami sociali ma che, nonostante questo, accarezza, nella brevissima durata di uno sguardo, di una stretta di mano o di un ballo dei cuori, la possibilità di avvicinarsi all’altro e potersi vicendevolmente appartenere. Questo sogno, però, si dilegua istantaneamente, perché «due uomini non possono mai essere realmente uno solo».
Eppure, inaspettatamente, la lirica di George è, per dirla ancora con Lukács, la lirica delle relazioni umane, delle amicizie, degli avvicinamenti e delle intese intellettuali. La relazione si accende e vive in uno spazio-tempo delimitato, passeggero, fragile; la distanza tra le anime diviene una piccola fessura che tende verso la propria dissoluzione, anche se soltanto momentanea, nel contatto, nell’unione. E «quando due esseri si separano, si sa soltanto che qualcosa non c’è più; mai che c’era qualcosa che ha cessato di essere». Quel che George cerca, in ogni caso, è il dialogo tra un’anima e l’altra, per il tramite delle forme e delle immagini.
La forte connotazione immaginifica e, ancora di più, simbolica della lirica di George, va ricondotta all’intima necessità di svincolare l’anima dalla volontà per consegnarla alla dimensione della «contemplazione incantata: nell’immagine ogni impulso è liberato». Il ricorso all’immagine e al simbolo è strettamente connesso alla questione del linguaggio e delle sue possibilità, un linguaggio la cui essenza tenta non solo di far heideggerianamente lampeggiare l’essere, ma di dare ad esso un’immagine. Al tempo stesso, però, questa quasi oggettiva evidenza, questa maggiore presenza, si manifesta in un’opposta illusoria esaustività: come un’onda, la parola poetica si avvicina all’essere per non raggiungerlo e ritrarsi, ancora una volta.
Le «istantanee simboliche» di George, che paiono impegnate quasi in un’affannosa ed estenuante corsa verso la conquista dello Spirito prima di assistere al suo dileguarsi, sembrano lasciar presagire le vicende che caratterizzeranno, di lì a poco, il Novecento. Vicende storiche nelle quali splendore, gloria, distruzione, sciagure, culto della vita e culto della morte si intrecceranno in una sola drammatica trama.

Splendore e gloria! Così è desto il mondo
pari agli eroi consacriamo alpe e oceano
possente orfano lo spirito guarda
al campo e alla marea che increspa intorno.

S’infrange un chiarore, vola un’immagine
scuote selvaggia ebrietà con sua croce.
Plora la legge e pensa in sé riflessa
«Tu mia salvezza tu gloria tu stella»

Poi di alto orgoglio il sogno si alza e doma
strenuo il Dio che l’ha eletto… finchè un grido
lontano in già ci scaccia e innanzi a morte
ci spoglia in breve […].

Splendore al quale segue la caduta, sogno che si disperde per effetto di un grido lontano, fino a lasciare nudi dinanzi alla morte, in breve. George costruisce con rigore e precisione i suoi versi, ponendoci di fronte alla domanda se tali versi esprimano freddezza o coinvolgimento, distacco o calore emotivo. George potrebbe apparire freddo, scrive Lukács, ma questo accade perché i suoi toni sono così delicati che non tutti sono in grado di distinguerli: freddo perché le sue tragedie sono tali che l’uomo medio odierno non avverte ancora la loro tragicità e perciò crede che quelle poesie siano nate solo per amore delle belle rime, freddo perché i sentimenti espressi dalla lirica non svolgono più alcun ruolo nella sua esistenza.
L’apparato simbolico e linguistico di George esplode nella creazione di immagini, per quanto pensabili, assolutamente irraggiungibili nella loro essenzialità. Esse si susseguono armonicamente seppure sfidando apparentemente ogni logica di senso, tutto «infuria, scuote, va, saetta e arde». Questa inarrestabile e furiosa oscillazione tra vitalità e dissoluzione è esemplarmente sintetizzata nei versi conclusivi di Sogno e morte:

[…] più tardi a noi
nel notturno cielo si disegna un quieto
gioiello di luce, rutilo: splendore
e gloria, ebrietà e croce, sogno e morte.

Ciò che pare incombere è l’oscurità e la tristezza della notte, desolante e, al tempo stesso, evocativa dimensione, tanto del silenzio quanto delle turbolenze dell’anima; «e mentre fuori si fa più buio e più nero, del pari all’interno il sarcofago di brace arde e pulsa stridendo sordamente. Nel brivido l’anima si rafforza». E l’anima che la poesia di George vuole risvegliare, alla quale egli si appella, è un’anima che fa propria questa fuga nel silenzio e nella solitudine, nell’espressione lirica di una verità nascosta dietro la perfetta e muta forma.

(Giacomo Fronzi)