mercoledì 8 agosto 2012

“Il bue squartato e altri macelli”: la summa di Sossio Giametta


È un lungo e variopinto corso di pensieri quello che si scopre in Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia (Mursia 2012); nel suo ultimo libro Sossio Giametta è incalzato dalle puntuali domande di Giuseppe Girgenti a raccontarsi, per autointerpretarsi, come traduttore e come interprete, come scrittore di racconti e come pensatore, in un lungo dialogo fitto di dettagli e sempre fecondo di riflessioni.

Se la traduzione delle opere di Nietzsche (ma non solo, e si pensi a due nomi dal calibro di Schopenhauer e Spinoza) è stato il grande impegno della vita di Giametta (noto collaboratore per l’edizione critica Colli-Montinari), è stato questo un impegno travalicante il dovere della fedele resa del pensiero in altra lingua di uno degli autori «più ostici, pericolosi e difficili da domare». Mosso dal «gusto quasi infantile» per la lingua, dal «piacere di rendere bene nella propria lingua qualcosa che è bello in un’altra lingua», ed anzi proprio in virtù di questo, Giametta è giunto, grazie ad un incontro così ravvicinato con l’intera opera nietzschiana, a sbrogliare l’intricatissima matassa Nietzsche, risolvendo quell’enigma che ancora egli è per molti.

Per quanto l’irruenza del pensiero nietzschiano abbia fatto pensare a una gigantesca e spettacolare onda anomala alzatasi sopra il mare dell’umanità (finanche a «6000 piedi sopra il livello del mare», secondo il diretto interessato), l’onda sempre parte del mare è, e come tale sempre ad esso ritorna con tutto il suo fragore spumeggiante. Nell’interpretazione di Giametta, Nietzsche non è “a parte” o “superiore” rispetto l’umanità, ma ne è a tutti gli effetti “parte” quale suo organo e strumento, con buona pace della fitta schiera di “nietzschiologi” (loro sì, indomabili e indisciplinati fino allo scadere in casi estremi nell’assurdità e comicità) sempre pronti al saccheggio dell’arsenale ben fornito dei suoi scritti (per riprendere un’immagine di Mazzino Montinari che Giametta riferisce), insensibili o peggio colpevolmente indifferenti all’idea che il tutto dipenda dal senso delle parti.

È per l’appunto Nietzsche il “bue squartato” del titolo, brutalmente strattonato e conteso tra innumerevoli interpretazioni attualizzanti e strumentalizzanti, fameliche della ricchezza del pensiero nietzschiano. In suo soccorso giunge l’interpretazione storico-critica di Giametta secondo il metodo filologico classico, che ne restituisce sì, finalmente, un’immagine globale e compiuta, ma che non lo esonera dallo smettere quelle maschere dietro le quali, suo malgrado, Nietzsche ha indugiato anche troppo a lungo: «non bisogna inseguire gli autori nei loro nascondigli, bisogna stanarli e strappar loro le maschere, perché vengano alla luce del sole e rivelino il loro volto; bisogna portarli dinanzi al tribunale dell’umanità affinché rendano conto del loro operato in funzione del servizio loro richiesto dalla storia e dall’umanità».

Così Giametta racconta di aver scoperto in Nietzsche l’unità e la coerenza sotto la varietà e le contraddizioni, il poeta e il moralista mal celati sotto le vesti del filosofo, e soprattutto di aver scovato la storia sotto la filosofia: “perfino” il filosofo di Zarathustra è a noi pienamente comprensibile solo se lo si riconosce strettamente avvinghiato alla sua epoca, in un legame impossibile da sciogliersi senza incorrere in gravi travisamenti. Proprio il tentativo, a tratti disperato e drammatico, di divincolarsi dalle morse e dai lacci del tempo di cui era ribelle creatura ha fatto di Nietzsche un intransigente inattuale: egli ha sofferto più di chiunque altro, facendosene l’espressione più viva e ardente, della crisi e dei problemi che come correnti marine scorrevano nelle acque più profonde della proprio epoca, e volente o nolente, in essi è sprofondato fino a scorgere sempre più lontana la superficie appena increspata dell’attualità.

Strappare le maschere dal volto di Nietzsche significa, da una parte, riscoprire in tutta la sua forza dirompente il solo vero filosofo dell’immanenza, il «campione della giustizia verso la vita», il suo tentativo di fondazione di una religione laica che celebri la vita in tutta la sua tragica fugacità; d’altra parte, per Giametta, significa anche fare i conti con i suoi “errori” gravidi di drammatiche, sebbene non volute, conseguenze, come Giametta ritiene ad esempio la trasvalutazione di tutti i valori, degenerata nel trionfo dell’animalità e del vitalismo selvaggio.

Il porsi in aperto e intransigente dialogo con i propri “autori” è l’atteggiamento che muove Giametta nel confronto non solo con Nietzsche, ma anche con Schopenhauer: si veda il capitolo Da Nietzsche a Schopenhauer, ricco di considerazioni sulla filosofia de Il mondo come volontà e rappresentazione, per Giametta il libro di filosofia più bello, completo e onesto che vi sia, se pur non esente da critiche puntuali e articolate.  Sconti non sono fatti nemmeno ad altri giganti del pensiero quali possono essere Heidegger o Marx, esempi noti del drammatico intrecciarsi del pensiero con la storia (nel denso capitolo Politica, di ieri, volando alto), per portarli, come detto prima, dinanzi al tribunale dell’umanità a rendere conto del loro operato e per strappare alla filosofia quel velo di innocenza che non le appartiene: anche e soprattutto questi grandi del pensiero, ribadisce Giametta, hanno sulle spalle pesanti responsabilità: «tutti hanno responsabilità per quel che pensano, dicono e fanno, come gli uomini hanno sempre pensato da che mondo è mondo […] I pensatori hanno certamente responsabilità, un’altissima responsabilità di fronte alla verità. Questa responsabilità è aggravata dalla loro consapevolezza delle conseguenze che le loro idee possono avere». E il peso di tale responsabilità si avverte nei “dinamitici” capitoli in cui Giametta come pensatore, con chiarezza e pochi giri di parole, affronta temi quali il cristianesimo, la Chiesa, fino alla discussione circa l’ammissibilità o meno della pena di morte sotto il profilo filosofico.

Merita considerazione a parte il capitolo di “commiato” rivolto ai giovani pensatori, cui è raccomandato di dedicarsi alla filosofia «solo se non se ne può fare a meno», non nel senso di cedere a una tentazione o ad un vizio, ma nel senso di “viverla” come «il più personale e improrogabile degli impegni» rimanendole fedele sempre e sempre animati da quella “passione divorante” che diviene l’unica forma in cui tale passione può darsi: essa è “dolce” nella misura in cui a tale divorarsi corrisponde «una grande voluttà, la più grande felicità», sì che bisogna dar ragione a Nietzsche nel paragonare il piacere della conoscenza al piacere di generare. Né qui l’aggettivo “dolce” allude a quella dolcezza smielata per cui gli pseudo- filosofi naufragano beati e lieti in un mare di falsi problemi, creati ad hoc da quella “cattiva filosofia” ormai incapace di riflettere sulla vita: «i problemi, deve essere la vita a crearli, non il filosofo», scrive Giametta. Ai filosofi spetta l’arduo compito, se possibile, di risolverli, quando si rendono conto (magari anche con sorpresa e a loro insaputa) di essere saliti su un “treno speciale” e di non avere altra scelta possibile se non quella di proseguire il viaggio.

Simona Apollonio