domenica 13 maggio 2012

Muamba ovvero le esperienze di pre-morte


Capiremo mai il vero significato della morte? Saremo mai in grado di scoprirne almeno in parte i suoi misteri? Potremo mai sapere se l’anima, ammesso che esista, continui a “vivere”, anche dopo essersi separata dal corpo? Probabilmente tutti questi resteranno per sempre i grandi quesiti irrisolti nella storia del pensiero dell’umanità, ma, come ci suggerisce Platone: filosofare significa prepararsi a morire.
Le descrizioni platoniche della morte sono in tutto simili a quelle di cui si parlerà in seguito: la morte, dice il filosofo, è la separazione della parte incorporea (l’anima) dalla parte fisica (corpo). L’anima separatasi dal corpo può incontrare spiriti di trapassati, conversare con loro e venir guidata, nel passaggio dalla vita fisica all’altra vita, da spiriti custodi. Il corpo è la prigione dell’anima e la morte è come una fuga o una liberazione dal carcere. L’anima entra nel corpo venendo da un più alto e divino regno e la nascita è dunque il momento del sonno e dell’oblio, poiché l’anima, quando entra nel corpo, passa da uno stato di profonda consapevolezza ad uno stato di ben minore lucidità e dimentica la verità che conosceva prima.
La morte, implicitamente, è un risveglio, un ritorno alla memoria. Tuttavia, pur credendo fermamente ad un’idea di morte così intesa, è sempre difficilissimo affrontarla e non vi sono mai cause o condizioni definite tanto fondate e ragionevoli da giustificare la morte di un essere umano, anzi, molto spesso esse ci appaiono assurde e paradossali.
Basti pensare alle ultime vicende di cronaca: nel giro di poco più di un mese, nel mondo dello sport, sono stati registrati quattro casi di giovanissimi atleti o ex atleti colpiti da arresto cardiaco: F. Muamba, unico sopravvissuto, V. Bovolenta, F. Mancini e P. Morosini. 
Queste inconcepibili morti hanno acceso l’importante polemica sull’inadeguatezza dei controlli medici nel mondo dello sport e diffuso una ammirevole campagna nazionale di sensibilizzazione per l’installazione di defibrillatori presso tutti gli impianti sportivi, perché è noto che, dopo un arresto cardiaco, ogni minuto perso equivale al 10% in meno di possibilità di salvare una vita.
A tal riguardo, va segnalata la lodevole iniziativa del Presidente della Provincia di Brindisi, Massimo Ferrarese, di acquistare ben 40 defibrillatori da distribuire sul territorio provinciale: 38 per gli istituiti scolastici superiori (dove saranno organizzati degli appositi corsi di formazione), uno per il Tribunale di Brindisi e l’altro per la Prefettura/Provincia.
Oltre a tale questione, tuttavia, le recenti morti nel mondo sportivo hanno fatto luce sulla delicata faccenda del rapporto tra il “morire e il tornare a vivere”. Quest’ultima fa particolare riferimento al caso di Fabrice Muamba, ventitreenne congolese e centrocampista del Bolton, il quale, lo scorso 17 marzo, colpito da un grave arresto cardiaco, è svenuto in campo durante il quarto di finale di Coppa d’Inghilterra contro il Tottenham. Nonostante il suo cuore abbia smesso di battere per ben 78 minuti, mentre medici sportivi in campo e in ospedale tentavano la rianimazione, l’asso del Bolton non solo è tornato in vita, ma – ed è la cosa più incredibile - al suo risveglio non ha riportato alcuna lesione cerebrale.

“Temevamo il peggio, è praticamente morto per 78': i 48' da quando è collassato a quando è arrivato all'ospedale e altri 30' dopo. Non c'era verso di rianimarlo, quando siamo arrivati in ospedale e i medici hanno preso in mano la situazione sono uscito in corridoio e ho pianto. Abbiamo usato due volte il defibrillatore in campo, una nel tunnel degli spogliatoi e 13 volte in ambulanza, ma nulla sembrava funzionare. Non credevamo che si riprendesse così in fretta come sta facendo. È incredibile”. Sono queste le dichiarazioni, raccolte in un'emozionante intervista alla Bbc, del medico del Bolton J. Tobin, il primo ad aver soccorso F. Muamba. E sempre in riferimento al caso Muamba, è stato scritto un interessante articolo su Panorama, intitolato “A volte (spesso) ritornano, in cui viene illustrato il curioso tema  dell’esperienza pre-morte o NDE (acronimo per l'espressione inglese: near death experience). 
Le NDE sono esperienze vissute e descritte da soggetti che, a causa di malattie terminali o eventi traumatici, hanno sperimentato fisicamente la condizione di “morte clinica”, a causa di coma o arresto cardiocircolatorio e/o encefalogramma piatto. Una volta riavutisi, questi stessi hanno raccontato di aver vissuto esperienze ultraterrene e/o extracorporee. La maggior parte delle testimonianze raccolte dagli studiosi del fenomeno come il cardiologo olandese Pim Van Lommel, o il medico e psicologo statunitense Raymond Moody, o ancora l’anestesista e docente universitario padovano Enrico Facco,  hanno caratteristiche comunivisione dall’alto della sala operatoria o del letto d’ospedale del proprio corpo “morto”,  viaggio in  un tunnel di luce e visione panoramica della vita (life review), sensazioni di pace e assenza di dolore, incapacità di stabilire il fluire del tempo, riluttanza a tornare in vita, disagio al momento del risveglio.

Anche Platone, senza saperlo, nel libro X di una delle sue principali opere, “La Repubblica”, potrebbe aver anticipato l’esistenza di questo fenomeno, nel racconto del famoso mito di Er, un soldato greco morto in battaglia, il quale si era “risvegliato” dopo diversi giorni e aveva raccontato cosa aveva visto nel suo viaggio verso la morte. 
Nel 1944, lo psichiatra svizzero C. G. Jung, nel suo libro autobiografico “Ricordi, sogni, riflessioni”, descrisse una sua personale esperienza pre-morte, provata a seguito di un infarto miocardico. Nulla di strano se si pensa che è oggi dimostrato che le NDE coinvolgano una quota che oscilla tra il 15 e il 18 per cento delle persone colpite da arresto cardiaco.
Al di là delle controversie scaturite dalle due opposte teorie interpretative - materialista e spiritualista - questo fenomeno fa emergere una fondamentale riflessione: perché relegare la morte nel mondo dell’inconoscibile e dell’ignoto, o ancora peggio definirla come il “nulla eterno”, il buio, l’oscurità, solo perché la scienza non è riuscita a trovare una via adatta per esplorarne le sue caratteristiche?
Oggi più che mai, forse in virtù delle sue sempre più evolute potenzialità, l’uomo necessita di una consapevolezza più profonda di che cosa sia la vita e quindi anche di che cosa sia la morte, di cosa significhi vivere, ma anche morire.
Basti ripensare alle parole di uno massimi filosofi della storia del pensiero come Seneca, il quale così scrisse: “Ascoltami: verso la morte sei spinto dal momento della nascita. Su questo e su pensieri del genere dobbiamo meditare, se vogliamo attendere serenamente quell'ultima ora che ci spaventa e ci rende inquiete tutte le altre”.

Socrate affermava che il vero saggio è colui che sa di non sapere; l'umiltà nella ricerca allora ci farà meravigliare sempre di quante cose non conosciamo e di quante strade esistano per arrivare (se mai arriveremo) alla verità e alla conoscenza.
Non avere i paraocchi nell’ambito della ricerca epistemologica significa quindi avere anche il coraggio di vagliare nuovo campi di ricerca - come quello della esperienza pre-morte - dei quali spesso si nega anche la stessa esistenza o che spesso si è soliti segregare nell’ambito del nulla o dell’inconoscibile, solo perché non sono direttamente verificabili e osservabili.

Elisa Cantone